Chiuso nel gulag cacciavo i corvi. E per salvarmi mi finsi barbiere

L’intervista L’avvocato Donadini: «Mi arrestarono puntandomi una pistola alla tempia. Nel carcere di Lefortovo la luce restava accesa 24 ore al giorno»

E questo?

«Bello, vero? È il modellino di un Savoia Marchetti 81, legno e acciaio. Lo realizzò un equipaggio per il suo comandante che andava in congedo. Lo vede il piedistallo? È la biella del motore di uno Spitfire inglese abbattuto, Seconda Guerra mondiale».

Raffaele Donadini è affezionatissimo all’Aeronautica, in cui da ragazzo svolse la leva obbligatoria (era in servizio a Orio al Serio la notte in cui il Dc9 dell’Itavia non rientrò da Palermo). La chiamavano l’“Arma Azzurra”, ali, volo e libertà, quella che lui, 66 anni, comasco doc, professione avvocato, sacrificò rinchiuso in un carcere dell’ex Urss per tre anni e mezzo, tra il 1992 e il 1996. Oggi, nel suo studio in centro città, accetta per la prima volta di parlarne perché, dice, «è una storia che ormai posso dire di avere metabolizzato, anche se qualche volta, di notte, ancora mi sveglio di soprassalto dopo avere sognato di essere ancora rinchiuso là dentro». Là dentro è il carcere di Lefortovo, a Mosca, dove l’avvocato fu trasferito nel dicembre del 1992 poche ore dopo l’arresto. Aveva raggiunto alcuni suoi clienti impegnati in una trattativa per la costituzione di una joint venture tra aziende italiane e aziende russe, i clienti furono accusati di avere perfezionato un parte dell’operazione spendendo dollari falsi, e lui - che pure non c’entrava nulla - vi si trovò invischiato senza troppi distinguo.

Era la Russia post Unione Sovietica, un Paese poverissimo e in lento disfacimento, con un sistema carcerario non molto distante da quello che nel remoto 1860, o giù di lì, nel suo “Memorie dalla casa dei morti” Dostoevskij definiva già «uno dei più potenti agenti distruttivi della nostra società».

Donadini ha partecipato spesso come relatore a convegni dedicati al tema della violazione dei diritti umani negli istituti detentivi dell’ex Urss. E a chi gli domanda se ritenga che negli ultimi anni le condizioni delle carceri russe siano cambiate, risponde senza esitazione che sì, lo sono senz’altro: «Ma in peggio».

Avvocato, cosa ricorda del giorno del suo arresto?

Dovevo rientrare in Italia, stavamo andando in auto verso l’aeroporto di Mosca, quando la polizia ci fermò per strada balzando fuori dalle camionette con le armi in pugno. Io rimediai un calcione sulla gamba di cui ancora porto i segni, mentre un poliziotto mi stringeva puntandomi la pistola alla tempia… Ci ammanettarono e ci portarono alla Lubianka, il casermone in cui aveva sede l’ormai ex Kgb. Ci tennero lì isolati per qualche ora, poi, nel pieno della notte, ci interrogarono affiancandoci un interprete. Il pubblico ministero scriveva, verbalizzava, poi rileggeva, decideva che non gli piaceva, strappava il foglio e ricominciava. Dalla Lubianka, il giorno successivo, finimmo a Lefortovo, carcere di massima sicurezza, nel quale rimasi tre anni, fino al 26 dicembre del 1995, quando fui trasferito a Leplei, in Mordovia, in un gulag per detenuti stranieri in mezzo al nulla. Era un campo recintato con le baracche, le torrette agli angoli e i secondini di guardia armati di mitra, poco o nulla da mangiare. Ne uscii il 24 aprile del 1996. Rimisi piede sul suolo italiano cinque giorni dopo, il 29, a tre anni e mezzo dall’arresto.

Che ricordi ha di Lefortovo?

Le celle erano stanze di circa tre metri e 60 per due e 20. Gabinetto a vista in un angolo, il lavabo, due o tre brande a seconda del numero dei detenuti , una finestra in alto con il vetro smerigliato, la luce accesa 24 ore su 24. Nella porta c’era uno spioncino dal quale tre volte al giorno ci passavano il cibo. Una sola ora d’aria senza possibilità di incontrare nessuno al di fuori dei compagni di cella. Si usciva, si percorreva in silenzio un lungo corridoio e si saliva sulla terrazza all’ultimo piano, dove erano state costruite altre celle a cielo aperto di tre metri per quattro coperte soltanto da una griglia. Per un’ora si camminava in silenzio guardando il cielo. Le guardie ci sorvegliavano dall’alto con i mitra spianati.

Nessun tipo di attività per le altre 23 ore?

Zero. C’era solo la radio diffusa tramite altoparlanti. Potevi tutt’al più intervenire sul volume, ma nient’altro.

Cibo?

Semolino, una pagnotta, zuppa con rape e con verze, e una brocca di tè da dividere con i compagni di cella.

Letture?

C’era la biblioteca, potevi chiedere un libro. Quelli in italiano erano una quindicina, dopo un mese li avevo letti tutti. Allora passai a quelli spagnoli, una sessantina, poi a quelli inglesi e a quelli in francese, anche se il francese non lo parlavo. Presto però finirono anche i libri.

Cure mediche?

Non c’era quasi nessun tipo di assistenza. Io, per esempio, ebbi problemi con un ascesso a un dente. Chiesi un antibiotico, ma un antibiotico non c’era. Ogni due, tre settimane incontravo il mio avvocato, una donna. Ero riuscito ad avvertirla. Me ne portava due pastiglie. Una la ingerivo subito, durante il colloquio, l’altra la nascondevo trattenendola in bocca per poterla ingerire nei giorni successivi, in caso di bisogno. Diversamente non avrei potuto portarmela in cella. Di notte dormivo con uno spicchio d’aglio in bocca come antinfiammatorio. Alla fine, nel centro medico del carcere, mi devitalizzarono il dente. Ricordo che il dentista era una donna, un colosso di ufficiale medico del Kgb. Mi chiese: «L’ha portata l’anestesia?»… E dove la trovavo io una dose di anestetico? Mi devitalizzò il dente senza sedazione. Mi tenevano in due. Non lo dimenticherò mai.

Come fa un essere umano a resistere tre anni in condizioni simili?

Sembra incredibile, vero? Eppure si resiste. Non so come ma si resiste. Pensi che con la luce sempre accesa nel volgere di 45 giorni mi ritrovavo ad avere completamento invertito il giorno con la notte, salvo poi invertirli di nuovo dopo altri 45 giorni.

Contatti con i familiari? Lei a Como aveva due figli piccoli…

La corrispondenza era totalmente proibita. Ma quando incontravo l’avvocato, riuscivo a infilare nel fascicolo processuale qualche lettera che poi lei provvedeva a spedire in Italia via fax.

E il processo?

La prima udienza, quella di convalida, la affrontai affiancato da un altro avvocato, un ceceno grande e grosso che si chiamava Leonida Hamzaiev e che mi era stato assegnato d’ufficio. Si presentò all’udienza con un sacchetto di plastica di quelli per la spesa dal quale estrasse qualche foglietto volante e il cosiddetto “kipitilnik”, un trabiccolo composto da un filo elettrico attaccato a una resistenza che da quelle parti si utilizza per scaldarsi una tazza di tè. Secondo il codice russo la convalida avrebbe dovuto essere effettuata entro 10 giorni dall’arresto, mentre nel mio caso ne erano trascorsi 14. Hamzaiev, davanti al suo tè, mi garantì che mi avrebbero scarcerato, ma ovviamente, in “modo sovietico”, il giudice stabilì che i 14 giorni erano in realtà da considerarsi 10 e mi lasciò dentro. Quel giorno compresi che non sarei uscito più. La sentenza era già scritta. Nei mesi successivi, durante la detenzione, studiai anche tutto il codice di procedura penale russo. Facile: pochi articoli, poche garanzie.

E con la lingua come se la cavò?

Un po’ di russo lo stavo imparando. E poi una mano, con il codice, me la diede un certo Tritiakov, un pubblico ministero con il quale condivisi un periodo di detenzione… Era stato condannato per corruzione dopo che un imputato assolto gli aveva fatto recapitare una cassa di vodka.

Lei era a Mosca anche quando Eltsin fece bombardare il parlamento…

Certo, ottobre 1993. Devo dire che in quell’occasione sperai. Si sentivano colpi di cannone in tutta la città. Avevo un compagno di cella azero che parlava bene inglese. Gli dicevo che in tutti i casi di rivoluzione che si rispettino, il popolo alla fine spalanca anche le porte delle carceri e libera tutti. Così mi feci spiegare per bene la strada e la linea della metropolitana da prendere per raggiungere l’ambasciata. Ancora ne ricordo l’indirizzo: Uliza Vesnina 13. Per un paio di notti dormii vestito di tutto punto con le mie carte e i miei documenti in tasca pronto a tagliare la corda, ma le porte del carcere non si aprirono. Al mio compagno di cella rinfacciai che i russi nemmeno le rivoluzioni erano più capaci di fare: «Siete dei buffoni», gli dissi.

Poi arrivò anche la condanna definitiva.

Quattro anni in primo grado confermati in appello.

E il gulag…

Il gulag arrivò il 26 dicembre del 1995. Ci vennero a chiamare durante l’ora d’aria. «Prendete le vostre cose che si va»… Chiesi al capo delle guardie quanto distasse la nostra destinazione e lui, per sfottermi, rispose che sulla carta geografica era «a 3 centimetri da Mosca». Restammo per ore chiusi in una piccola stanza finché alle 21 ci caricarono su un camion che ci portò fino a uno scalo merci in cui ad attenderci c’era un treno per detenuti. Gli scompartimenti erano celle, con panche di legno e inferriate. Una sorta di tradotta militare. Viaggiammo 24 ore.

La vita nel gulag? Molto diversa da quella di Lefortovo?

Diciamo che nel gulag c’era più vita comunitaria. Avevamo la camerata, la mensa, qualcuno lavorava.

Che generi di lavori?

Si facevano intarsi in legno seguendo un disegno già ricavato sulla superficie di tavole che finivano poi a rifornire qualche mobilificio. Qualche altro detenuto era incaricato di realizzare contenitori utilizzando immensi rotoli di tetrapak. La mia fortuna fu quella di assumere l’incarico di barbiere.

Barbiere?

Sì, se n’era andato il “titolare”, un marocchino che era stato scarcerato, e le guardie chiesero se qualcuno fosse capace di tagliare i capelli. Io, che non avevo la più pallida idea di come si facesse, mi feci subito avanti… Fui nominato per acclamazione...“Italian style”… I primi tempi avevo la fila fuori dal “negozio”. Così, in qualche modo riuscii a costruirmi una mia autonomia. Avevo la piena disponibilità della bottega, che aprivo e chiudevo a piacimento, di rado mi capitava più di un cliente al giorno - senza che peraltro nessuno si lamentasse mai della qualità del taglio - e soprattutto avevo i miei amici vietnamiti, che nella stanza accanto intagliavano i pezzi degli scacchi. Anche loro lavoravano per conto dell’amministrazione.

Comunque meglio del carcere.

Per alcuni aspetti senz’altro. Per altri un po’ meno: d’inverno la temperatura scendeva a 33 sottozero e le baracche non erano riscaldate. Avevamo una sola coperta a testa.

Cibo?

Una scodella di brodaglia, poco più che acqua calda, e una fetta di pane nero - mattina, mezzogiorno e sera - di cui si poteva mangiare solo la crosta perché all’interno non era cotto. Quando tornai a casa pesavo 51 chili.

Come riuscivate a sopravvivere?

Ci si arrangiava. Catturammo e cucinammo un paio di corvi, che però erano furbi. Gli altri non si fecero più vedere. Ricordo che in un’occasione i vietnamiti cucinarono un gatto mentre in un’altra riuscirono a corrompere un secondino facendosi consegnare un cane bassotto. Cucinarono anche quello. Io da un detenuto coreano che curava i conigli di un agente di custodia ne rimediai uno scambiandolo con una felpa Benetton. Lo cucinai con le spezie di un amico indiano. Un ottimo coniglio. Se non altro c’era solidarietà.

In che senso?

Nei gulag i detenuti hanno un loro codice di comportamento, come in tutte le carceri. In genere a comandare sono i boss della mafia russa, i cosiddetti “vor”, affiancati da una sorta di consiglio direttivo. Oltre a far rispettare le regole non scritte del carcere, “vor” e consigli direttivi gestiscono anche una specie di cassa comune che si chiama “obsciarka” nella quale i detenuti che ricevono pacchi da fuori sono tenuti a versare qualcosa. La cassa comune viene poi utilizzata per dare anche a chi non ha e non riceve nulla oppure, nel caso del gulag in cui mi trovavo io, a quelli che venivano trasferiti momentaneamente all’ospedale. I beni materiali sono sempre merce di scambio.

Cosa ricorda della scarcerazione?

Era il 24 aprile. Ci fecero uscire e ci sistemarono in quello che chiamavano lo “chalet”, una catapecchia senza acqua corrente a pochi metri dal campo. Ci restammo quattro giorni, poi ci caricarono prima su un bus quindi su un treno che ci riportò a Mosca viaggiando di notte. Dalla stazione prendemmo un taxi e raggiungemmo l’ambasciata. Non mi sembrava vero. Fummo accolti da un carabiniere che guardava il tg3. Mi disse che il Milan, il giorno prima, aveva vinto lo scudetto. Ci offrì un caffè fatto con la moka. Non ne ricordavo nemmeno più il sapore. Il Console convocò il capo scalo dell’Alitalia. Io ancora temevo che avrebbero potuto fermarci di nuovo. Non avevo documenti, non avevo nulla.

E invece?

Invece, in aeroporto, superammo tutti i controlli e salimmo finalmente a bordo di quell’aereo che aspettavo da tre anni e mezzo. Quando scesi a Linate mi inginocchiai come avrebbe fatto il Papa. L’incubo era finito.

Che Russia lasciò?

Era il quarto mondo.

È vero che i loro servizi segreti le offrirono una “collaborazione”?

Si, è vero. Un loro emissario venne a trovarmi al gulag dicendo che al mio rientro in Italia avrebbe potuto darmi un mano in cambio di una non meglio specificata collaborazione. Ovviamente declinai.

Com’è stato ritornare? Difficile?

Devo dire che sul lavoro sia i colleghi del Foro che i magistrati mi accolsero con calore. Per il resto sì, è stato difficile... Ma vabbé: questa è un’altra storia.

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