Ciro Corrado, quattro proiettili in una notte di pioggia e misteri

Storie criminali Personaggio vicino agli ambienti della malavita fu trovato morto in un prato di Albate nel maggio del ’98. La Procura non trovò il killer (ma indagò due giornalisti)

La sera in cui Ciro Corrado morì ammazzato, sul vallone di Albate cadeva una pioggia poco primaverile, e anzi caparbia, eterna, di quelle che si sarebbero dette novembrine. Trentotto anni, originario di Avellino, a Como dal 1979, Corrado fu assassinato attorno alle 23.30 del 26 maggio 1998 con quattro colpi di pistola che i vicini udirono distintamente, scambiandoli per i tuoni di un temporale quello sì primaverile. Uno lo centrò al fegato, tre al petto, e di questi uno al cuore.

Morì sotto casa, un vecchio fabbricato colonico al civico 80 di via Ninguarda, poco distante da una scuderia e a un tiro di schioppo dall’Oasi (e dal carcere) del Bassone, dove la mattina successiva una vicina lo trovò steso e stecchito in posizione supina in mezzo al prato, le braccia distese come un Cristo, gli occhi sbarrati e rivolti al cielo bianco di nuvole. Cinque ore e parecchie domande dopo, sul fare del mezzogiorno, ai carabinieri non restava in mano quasi nulla, se si eccettua la testimonianza un po’ logorroica di un’altra vicina che aveva raccontato di avere udito quei botti, di essersi sporta da una finestra nel cuore della notte e di avere visto allontanarsi, neppure troppo velocemente, una piccola auto scura, probabilmente una Peugeot che da quelle parti non s’era mai vista.

Buttafuori al “Morandi”

Oggi, a 26 anni da quei fatti, l’omicidio di Corrado è un altro caso di cronaca irrisolto, e i misteri che lo avvolgono tessono la trama di un racconto che ci riporta al sottobosco dei personaggi tragici e un po’ pittoreschi che scrissero la nera di quell’epoca, quella dei “Fiori della notte di San Vito”, prima maxi inchiesta condotta nel Comasco contro crimine organizzato e ‘Ndrangheta.

Corrado aveva lavorato come guardia giurata fino al 1991, quando era stato costretto a lasciare dopo essere stato iscritto sul registro degli indagati come presunto basista di una rapina attribuita a Lillo Marcenò, un altro dei protagonisti dei “Fiori”. In realtà non era la prima volta che finiva nei guai. Già nel 1986, cinque anni prima che la sua carriera da vigilantes si arenasse, era stato arrestato per favoreggiamento personale e detenzione di armi da fuoco. All’epoca la polizia cercava tale Roberto Gavazzeni, bergamasco, componente di una banda di rapinatori di banche attiva nel Lecchese e assurto agli onori delle cronache anni dopo, nel 1996, per un’evasione conclusasi con la cattura sui monti di Garzeno. In quel 1986, Gavazzeni era stato trovato proprio a Ponte Chiasso, nascosto nella casa di via Marchesi che apparteneva a Corrado, e nella quale i carabinieri avevano rinvenuto anche una 357 Magnum con sei proiettili. Non solo: alla fine di quel 1986 il pm Romano Dolce firmò una seconda richiesta di carcerazione, che venne eseguita a dicembre; la Procura contestava a Ciro di essersi caricato in auto un operaio di Orsenigo - per carità, non uno stinco di santo - che aveva spillato sei milioni di lire a un’attempata signora luganese sedotta, abbandonata e truffata, e di avere provveduto in quel modo al recupero del credito sotto la minaccia delle armi.

Nel 1991, smessa per cause di forza maggiore l’uniforme da guardia giurata, Corrado era stato assunto come portiere di notte - in realtà “buttafuori” - a Lugano, al mitico Morandi, celebre discoteca all’epoca frequentatissima anche da tanta gioventù comasca che ambiva a incontrarvi le deliziose (e disinvolte) studentesse dell’altrettanto mitico liceo americano di Montagnola. Vi rimase cinque anni fino a quando, nel 1996, fu licenziato per via di certe frequentazioni invise alla direzione del locale. Nel frattempo, però, sulle sue tracce si erano già messe le Procure di Como e di Varese, assieme all’Interpol, le une per un presunto traffico di automobili taroccate, l’Interpol niente meno che per certe transazioni internazionali di pietre preziose, altrettanto presunte.

L’omicidio di Ponte Chiasso

Tra le piste sulle quali i carabinieri presero a indagare dopo la sua morte c’era ovviamente quella del regolamento di conti, per il quale, tuttavia, bisognava individuare un contesto. Non che, precedenti alla mano, ne mancassero, anzi: una delle prime ipotesi li riportò proprio nella casa di via Marchesi a Ponte Chiasso in cui Corrado aveva nascosto il latitante, ma che dieci anni prima, nel settembre del 1988, era stata anche teatro di una sparatoria in cui aveva rischiato di lasciarci le penne il fratello di Ciro, Carlo, un ex carabiniere all’epoca 26enne.

A morire ammazzato da un colpo di pistola esploso al culmine di una colluttazione era stato tale Enrico Carnazzola, un cosentino di 32 anni che da tempo gestiva l’Italia, il cinema a luci rosse di Ponte Chiasso, un posto che nell’era ante web, al pari dell’Embassy di via Rezzonico, registrava il sold out a ogni proiezione. L’omicida era un ex dipendente che Carnazzola accusava del furto di alcune cassette pornografiche. Litigarono sulle scale della casa di via Marchesi, poi l’ex dipendente riuscì a sfilare l’arma dalla tasca di Carlo Corrado e fece fuoco, ammazzando Carnazzola ma ferendo pure lui, Carlo, che finì sotto i ferri al Sant’Anna con due buchi, uno al volto e uno alla nuca, ma che miracolosamente portò a casa la pelle senza troppi danni.

Rimestare tra le pieghe di quella vecchia storia indagando tra i vicoli di Ponte Chiasso non portò a nulla, così come non portarono a nulla né la pista di quella Peugeot che la vicina di Albate sosteneva di avere visto sotto casa (si parlò di una serata trascorsa al bar con un gruppo di amici,ma non furono mai individuati né il bar né gli amici), né l’identificazione della compagna di Ciro, una donna italiana di quarant’anni che viveva nel Luganese, dove le indagini finirono per concentrarsi quando fu chiaro che la maggior parte degli interessi del morto da quelle parti orbitavano, tra Lugano e il casinò di Campione, all’epoca ricettacolo di parecchio malaffare, soprattutto usurario. Nei mesi successivi i carabinieri si convinsero che l’omicidio fosse maturato proprio negli ambienti del prestito a strozzo. E che probabilmente Corrado avesse pagato con la vita la mancata consegna di una somma di denaro che pochi giorni prima di morire avrebbe dovuto portare con sé di rientro da un viaggio di “affari” a Roma.

Una conferma del fatto che la Procura stesse indagando in quella direzione si ebbe quando nel novembre successivo, in ambienti investigativi si cominciò a spendere il nome di Maurizio Agrati, 46 anni all’epoca, già sospettato di essere membro di una gang di strangolatori di aziende che al tempo imperversava dalle parti di Lecco, e già autore di una rocambolesca fuga dal carcere di Lugano.

L’arresto a Villa Geno

Ma la vera svolta sembrò maturare quando, sempre in quel mese di novembre, lungo viale Geno i carabinieri fermarono un pregiudicato 40enne reduce lui pure dall’inchiesta dei “Fiori”: in auto gli trovarono due pistole cariche e con il colpo in canna, e si convinsero che una di quelle fosse l’arma che aveva esploso i quattro colpi che avevano steso Corrado. Pochi giorni dopo la tesi fu smentita dagli accertamenti balistici, con il risultato che dell’arresto di viale Geno si parlò soprattutto per l’accusa di favoreggiamento che la Procura, nel frattempo, aveva formalizzato nei confronti dei due giornalisti de La Provincia che ne avevano scritto. La loro colpa? Quella di avere messo l’arrestato sul chi vive dando notizia del fatto che fosse stato indagato non solo per le armi cariche nel cruscotto ma anche per l’omicidio Corrado, circostanza che non gli era nota e rispetto alla quale ora, a pubblicazione avvenuta, avrebbe potuto “difendersi” adottando - lui o chi gli stava accanto - precauzioni che avrebbero potuto danneggiare tutta l’indagine.

In un articolo di fondo che suscitò un certo clamore, l’allora direttore del giornale Alessandro Sallusti scrisse: «Offensivo pensare che un giornalista scriva qualche cosa con l’intenzione di favorire dei presunti criminali».

L’accusa naturalmente finì archiviata, come archiviata, purtroppo, finì tutta l’inchiesta.

Di sicuro qualcuno sapeva, e probabilmente qualcuno sa ancora, benché i delitti risolti sulla scorta delle rilevazioni di un pentito siano tutt’altro che frequenti. Accadde per l’omicidio di Franco “Ciccio” Mancuso, freddato da un sicario in un bar di Bulgorello l’8 agosto del 2008 e risolto dieci anni più tardi in seguito al provvidenziale ravvedimento di un ergastolano. Ma sono casi rari. Perché dalle parti dei “Fiori di San Vito” la bocca si tiene chiusa, in genere per sempre.

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