Il delitto perfetto di via Anzani: un giallo irrisolto tra Como e Pesaro

Storie criminali Federico Vaghi fu strangolato nel marzo del 2000 - Una pista condusse gli investigatori negli ambienti di una nuova generazione di “ragazzi di vita” ma gli assassini, o l’assassino, non furono mai individuati

Federico Silvano Vaghi morì a 65 anni in un orario imprecisato a cavallo tra il 23 e il 24 marzo del 2000. Il suo è uno dei rari omicidi tuttora irrisolti entro i confini di una provincia che nei primi anni del nuovo millennio - dalla morte di Teresa Lanfranconi al delitto dell’armeria Arrighi - assistette a una surreale recrudescenza di delitti di sangue, quasi tutti risolti in tempi più o meno brevi. A vent’anni di distanza la morte di Vaghi resta invece avvolta nell’identico buio che all’epoca rendeva così impenetrabile l’esistenza arrabattata di una nuova generazione di “ragazzi di vita” provenienti dall’Est Europa o dal Nord Africa, una nazione di piccoli, inafferrabili spettri che la fame rendeva voraci e non di rado spietati.

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Il cadavere di Vaghi fu trovato la mattina del 24 marzo in via Anzani, nel piccolo appartamento che occupava al piano terra del civico 32, in un edificio di case popolari di proprietà del Comune. A dare l’allarme era stato Giuseppe R., il garzone che avrebbe dovuto consegnarli l’acqua minerale. Trovò la porta di casa aperta con le luci accese, sbirciò e intravide il corpo seminudo del pensionato immobile sul letto. Anziché entrare, Giuseppe scappò via in cerca di aiuto, trovandolo in una vicina che a sua volta stava uscendo per andare al lavoro. «Era tutto in disordine», riferì poi la donna alla polizia: in sala c’erano un paio di mutande e un paio di scarpe da uomo abbandonate vicino a una poltrona e alcuni bicchieri appoggiati su un tavolino, la cucina era stata messa a soqquadro mentre in camera da letto erano rimasti aperti i cassetti con gli indumenti affastellati un po’ alla rinfusa. Le finestre erano chiuse, le tapparelle alzate, sul corpo nessuna traccia di sangue né di traumi evidenti, anche se la testa era girata verso sinistra, con la cornetta del telefono appoggiata sulla spalla, come se Vaghi avesse cercato di chiedere aiuto, di telefonare a qualcuno, o come se il suo assassino si fosse servito del cavo del telefono per strangolarlo.

Il lavoro come magazziniere

Fu il medico legale Giovanni Scola a stabilire, poco più tardi, che in base al “rigor mortis” il decesso doveva risalire a circa sette, otto ore prima. Quando poi si ritrovò il cadavere tra le mani sul lettino metallico per le autopsie, Scola non ebbe più dubbi: la morte era la conseguenza di uno strangolamento, probabilmente esercitato proprio con l’ausilio del filo del telefono di casa.

Non che fosse, Vaghi, in condizioni di salute tali da consentirgli di resistere o di difendersi più di tanto: soltanto un paio d’anni prima era stato colpito da un ictus dal quale si era in parte ripreso, ma i cui effetti gli rendevano la vita tuttora parecchio difficile.

Oltre al garzone dell’acqua minerale, riceveva ogni giorno la visita di uno degli obiettori che per conto del Comune garantivano il recapito dei pasti a domicilio agli anziani non completamente autosufficienti. Vaghi aveva chiesto di poter usufruire della formula sei giorni su sette, con l’esclusione delle domeniche e della cena, per la quale riusciva ad arrangiarsi, in un orario in cui in genere preferiva restarsene da solo. Ai giornalisti che la mattina del 24 marzo andarono in giro a fare domande, fu subito chiaro che l’esistenza di quell’uomo si esauriva entro i confini di una routine molto rigida. Era milanese, e a Milano aveva lavorato una vita come impiegato fino al giorno in cui le condizioni di sua madre, che invece abitava a Como, lo avevano costretto a traslocare per poterla accudire, non prima di essersi trovato un nuovo impiego come magazziniere in via Ferrari. L’età della pensione era arrivata in fretta anche per lui, così come in fretta era arrivato il commiato della mamma, e con esso il trasferimento nella nuova casa di via Anzani. Non si poteva dire che in zona fosse conosciutissimo. Usciva brevemente al mattino il tempo per acquistare il giornale all’angolo con via Magenta e per scambiare due chiacchiere con l’edicolante, poi più nulla, se non qualche rara incursione in rosticceria e in un bar di via Milano alta. In compenso di lui si ricordavano bene parecchi vicini, di lui e del viavai di giovanotti stranieri nei quali capitava di imbattersi dopo il tramonto, sul portone o nel cortile della palazzina.

Il rifugio di via Cinque Giornate

Erano gli anni delle prime indagini genetiche, e tracce di Dna vennero “repertate” un po’ dappertutto all’interno dell’appartamento, a partire dai bicchieri dimenticati sul tavolo del salottino, dai quali l’assassino aveva senz’altro bevuto. A quei reperti si ancorarono le speranze della Procura quando nel volgere breve di poche ore fu chiaro che senza testimoni né telecamere difficilmente sarebbe stato possibile venirne a capo, tanto che tre giorni più tardi, in quell’esordio di primavera ancora fredda, i “non sviluppi” del caso di via Anzani erano già finiti fuori dai menù delle cronache per lasciare spazio al dibattito sulla sede del nuovo ospedale (in quei giorni prendeva piede l’ipotesi della piana di Brugo) e alla tragedia che il 27 marzo era costata la vita al dentista Cesare Fasola, morto nel rogo della sua casa tra via Anzi e via Zezio.

Di Federico Silvano Vaghi non si parlò più fino a quando, nel settembre successivo, la polizia rinvenne in un appartamento di Pesaro il corpo di uno stilista marchigiano di 55 anni, tale Maurizio Aiudi, legato, imbavagliato e ucciso sul letto di casa. In un’epoca in cui alla malavita non erano ancora del tutto chiari i rischi legati all’utilizzo dei cellulari, l’assassino fu individuato proprio grazie alla sim del telefonino sottratto in quella casa (oggi neppure il più sprovveduto dei delinquenti se ne andrebbe mai a zonzo con uno smartphone rubato). La polizia lo rintracciò proprio a Como. Si chiamava Abdelmajid El Hilaly, aveva vent’anni e un lavoro ufficiale come ambulante. Fu fermato in una stamberga di via Cinque Giornate occupata abusivamente da un nugolo di extracomunitari senza fissa dimora che da mesi avevano fatto dello stabile una sorta di quartier generale delle loro malandate esistenze, senza che nessuno avesse mai potuto nulla per sloggiarli. Sempre lì, peraltro, nel giugno precedente, la polizia aveva trovato il cadavere di un algerino quarantenne stroncato sotto il sole della prima estate da una overdose di alcolici, e già in quella occasione in questura s’era preso atto delle condizioni sudicie dei vari bugigattoli di quell’edificio in cui trovava rifugio quel piccolo esercito di sbandati di origine maghrebina.

Comunque: trascinato via in manette, El Hilaly se la cantò abbastanza in fretta, spiegando al magistrato tutti i dettagli dell’omicidio consumato nell’attico pesarese. Due cose riferì: la prima riguardava la presenza di un complice, un coetaneo che aveva preso parte attiva al delitto, la seconda riguardava le modalità dell’uccisione: secondo la versione del giovane ambulante, essa fu conseguenza di un litigio innescato per una prestazione sessuale diversa da quella concordata, e alla quale lui avrebbe voluto sottrarsi. Come nel caso di via Anzani, anche la morte dello stilista pesarese sopravvenne per soffocamento; lo avevano legato mani e piedi con il filo elettrico di un asciugacapelli e con quello del caricatore di un telefonino, salvo poi imbavagliarlo con la stessa sua camicia, modalità che tra l’altro ricordano da vicino quelle di un’altra aggressione maturata in un contesto non distante, quella che nel maggio di cinque anni dopo sarebbe costata la vita a Claudio Rizzo, piccolo imprenditore nel ramo del commercio ucciso da una banda di ventenni rumeni in un appartamento di via Milano Bassa.

Verso l’epilogo

Ovviamente l’arresto di El Hilaly spinse la Procura a riattivare le indagini sulla morte del pensionato di via Anzani, coinvolgendovi anche l’“Unità di analisi crimine violento” del ministero dell’Interno, all’epoca parecchio in auge per l’apporto determinante fornito all’identificazione del serial killer Donato Bilancia (13 ergastoli per 17 omicidi commessi tra il 1997 e il 1998 in Liguria e nel basso Piemonte). La fuga del complice di El Hilaly non durò più di tanto. Lo acciuffarono pochi giorni dopo, sempre in quel mese di settembre, a Ventimiglia, mentre cercava di dribblare i doganieri francesi. Anche lui, 22 anni, passaporto siriano, aveva commesso l’imprudenza di andarsene a zonzo con un cellulare “Gsm”.

Della morte di Vaghi, e di quel viavai di “ragazzi di vita” nella corte di via Anzani, non si seppe più nulla, perché a nulla valsero i tentativi di confrontare i vari profili genetici raccolti nell’appartamento.

Quell’omicidio segnò comunque l’inizio di una nuova, lunga stagione di delitti le cui indagini ebbero miglior fortuna in una città “nera” che sembrò rivelarsi meno generosa e più indifferente. Per qualcuno stava cambiando, per altri non smise mai di essere sé stessa.

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