«Con le mani nel fango tra i cadaveri del Vajont»

L’intervista Angelo Migliavada, ex vigile del fuoco comasco: «Per giorni proseguimmo a raccogliere centinaia di corpi lungo gli argini del Piave»

Quest’anno Angelo Migliavada ne fa «vutantasees», come dice lui, 86, una quarantina dei quali trascorsi con indosso l’uniforme dei vigili del fuoco. Alluvioni, valanghe, terremoti, l’Irpinia e il Friuli, l’esondazione dell’Arno nel 1966. Cittadino onorario di Longarone, Angelo è però tra gli ultimi soccorritori che il 10 ottobre del 1963, poche ore dopo il disastro, raggiunsero la valle del Vajont, ridotta a «un’unica, immensa piana di fango e di morte».

«Partimmo in otto - ricorda -, con una Campagnola e due autocarri, un Fiat 639 e un Fiat 640 senza avere la minima idea di quello che avremmo trovato. Arrivammo verso sera che ancora c’era un po’ di luce. Ricordo una distesa di cadaveri mezzi nudi, centinaia di corpi che per giorni continuammo a raccogliere lungo gli argini e nelle anse che le acque del Piave creavano nel fango, corpi di donne, di bambini e di anziani... Gli ordini erano quelli di caricarli sugli autocarri e di trasportarli a Fortogna, dove era stato allestito un gigantesco obitorio. Lì venivano lavati, vestiti e ricomposti nelle bare non prima di essere stati fotografati per consentirne il riconoscimento. Di uomini ce n’erano pochissimi, la maggior parte di quei padri di famiglia viveva e lavorava all’estero, in Belgio soprattutto. E scampò al disastro».

Quanto fu difficile?

Fu difficile, ma eravamo ancora ragazzi, forse un po’ incoscienti. Fu senz’altro più dura per i “vecchi”, per i colleghi più anziani che erano già padri. Ricordo il nostro comandante, un sottufficiale che si chiamava Montorfano. Patì moltissimo.

All’epoca lei aveva 25 anni...

Ero entrato nei vigili del fuoco a 18, quando si era trattato di partire per la leva obbligatoria: al termine del periodo di leva passai di ruolo e divenni effettivo. Scuola centrale antincendio a Roma, poi Varese nell’estate del 1959, pochi giorni dopo la tragedia del Supercostellation di Twa abbattuto da un fulmine sopra l’aeroporto (sessanta vittime, tra le quali la sorella dello scienziato Enrico Fermi, ndr). Nasceva il nuovo aeroporto, e con il nuovo aeroporto servivano più vigili del fuoco.

Poi Como?

Sì, Como. Avevo fatto domanda per il corso sommozzatori a Genova. Ottenuto il brevetto, fu quasi naturale ripartire dal mio lago.

Ancora cadaveri...

Tanti. Ne ho ripescati a decine. Per anni mi fu vietato di prendere le ferie durante la bella stagione. Sempre di servizio, da giugno a settembre.

E sempre sott’acqua...

In realtà all’inizio il recupero degli annegati si faceva con una “rampiniera”.

Cioè?

Era una lunga barra di metallo alla quale erano assicurati una serie di grossi ami, veri e propri ganci. La si immergeva nell’area in cui si riteneva che si trovasse la salma dell’annegato di turno dopodiché, mentre un collega remava, un secondo la manovrava a strascico, fin quando i ganci avessero “afferrato” qualcosa: una mano, un polso, una gamba.

E quando cominciaste a immergervi?

All’inizio utilizzavamo gli “Aro”, autorespiratori a ossigeno, con i quali scendevamo anche a venti metri benché fosse sconsigliato oltrepassare i dieci... Li utilizzavamo a circuito aperto, inspirando ed espirando... Con le attrezzature dell’epoca non era facile.

Eppure ne recuperaste parecchi...

Ne ricordo tanti...

Per esempio?

Marito e moglie suicidi poco prima di Argegno. Lui lanciò l’auto a tutta velocità fuori strada. Li ripescammo dopo una settimana di ricerche a 50 metri di profondità. Qualche anno dopo sarebbero arrivati i primi mezzi filoguidati, ma fino ad allora si procedeva a tentoni e al buio, badando a non sollevare troppo limo, ché altrimenti non sarebbe bastata la torcia più potente... Ricordo anche due elicotteri della Finanza caduti in anni diversi uno di fronte all’isola Comacina il giorno della Befana, il secondo ad Argegno. Tutti morti, tutti ripescati. O quasi. A Domaso, un’estate proseguimmo per giorni le ricerche di un consulente finanziario la cui auto, una Bianchina, era stata ripescata senza trovarvi traccia di nessuno. Si credeva che anche lui avesse scelto di togliersi la vita, poi scoprimmo che era scappato con i soldi dei clienti, e che la Bianchina in acqua era stata una messinscena. E poi la bambina...

Quale bambina?

Giocava con la sorellina sulla passeggiata di Villa Olmo, all’inizio degli anni Settanta. Scavalcò la ringhiera della darsena dell’amministrazione provinciale e cadde, morendo annegata. La cercai per ore finché sentii i suoi capelli attorcigliarsi attorno alla mia mano. Il padre faceva l’operatore cinematografico al Politeama. Per anni ogni volta che lo incontravo continuò a fermarmi e a chiedermi di raccontargli ancora di quando avevo ritrovato sua figlia...

Mai rischiato la vita?

Con un geologo che si era immerso a Lenno in pieno inverno, davanti a Villa Mantegazza. Ma con le bombole, anziché indossare una muta contro il freddo, si era vestito da alpinista, come se fosse stato lì lì per affrontare un ghiacciaio. Ero fuori servizio ma mi chiamarono comunque. Scesi legato a una sagola dalla quale, per riuscire a trovarlo, dovetti sganciarmi. Lo individuai a 60 metri di profondità ma ero senza equilibratore e non avevo più nemmeno la corda cui attaccarmi per risalire. Lo afferrai e provai a sollevarlo ma pesava troppo, così per riuscire a riportarlo in superficie dovetti spogliarlo. Ebbi un encomio. Sì, in quell’occasione rischiai davvero la vita.

Il Vajont perché?

Perché a quei tempi funzionava così. Ogni comando provinciale doveva avere a disposizione una squadra pronta anche alle emergenze fuori provincia, la cosiddetta colonna mobile.

C’erano anche altri comandi lombardi?

C’erano quasi tutti. Milano, Varese, Mantova, Cremona. Restammo sul campo per una decina di giorni anche se poi, mano a mano che veniva completato il recupero delle vittime, il lavoro diminuiva. Verso la fine della settimana, noi comaschi realizzammo a Fortogna una grande croce con i tronchi degli abeti abbattuti dall’acqua. Era alta più di una decina di metri. Utilizzammo un escavatore meccanico e la tecnica delle funi controventate. Era il nostro modo di ricordare quei morti, l’ultimo segno che lasciammo in quei luoghi. Francamente poco in confronto a quello che ci rimase dentro per sempre.

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