Cronaca / Como città
Domenica 05 Aprile 2020
Coronavirus: salvare le imprese
e combattere la nuova povertà
Giuseppe Guzzetti: «Le ricadute sociali ed economiche dell’emergenza: fiducia in Mattarella e speranza nell’Europa»
Due problemi accompagnano tristemente la già drammatica emergenza sanitaria del coronavirus: quello della povertà che si accentua sempre più e l’altro, connesso, del tessuto produttivo che rischia ferite gravissime. L’avvocato Giuseppe Guzzetti, già presidente della Regione e per oltre vent’anni della Fondazione Cariplo, affronta con “La Provincia” le riflessioni su questi tempi e su un futuro che va costruito ora. Per le persone e le imprese, passando dall’Europa. Con un rischio da evitare assolutamente con un fermo protratto delle attività: perdere il nostro tessuto produttivo, così ferito.
Avvocato, come sta vivendo queste giornate?
Le vivo come tutte le persone che si sono rese conto della situazione gravissima in cui ci troviamo: bisogna rispettare le regole. All’inizio non avevamo ben capito che cosa ci avrebbe provocato questo virus. L’unico modo per bloccarlo e invertire la tendenza è stare in casa. Non muoversi.
Oggi è possibile farsi consegnare i viveri attraverso la rete, questi canali ci consentono di avere frutta, verdura, i prodotti per vivere. Dopo di che, siccome questo virus si trasmette per contatto, vicinanza, c’è da pensare che si arresti il contagio e arretri. Non sappiamo quando avverrà, in che tempi. Intanto, non bisogna uscire di casa.
L’emergenza sanitaria è il primo pensiero, ciò che concentra tutti i principali sforzi.
Si aprono però anche altri problemi: quali la preoccupano di più in questa fase?
Sono due, e strettamente legati, di una drammaticità unica. Partiamo dal primo: si tratta del problema della povertà che dilaga e in parte è dovuto allo stato preesistente che ora si aggrava ulteriormente. Oggi le attività sono ferme e la gente con qualche risparmio, quando l’avrà consumato che cosa avrà per vivere? Che cosa le rimarrà? C’è da dire anche che di questi tempi viene confermato anche un aspetto che si è sempre detto in tutti questi anni alla Fondazione Cariplo.
Quale sarebbe, in particolare?
Siamo un popolo generoso. Lo vediamo anche in provincia di Como, con la Fondazione Comunitaria: qui il mio successore Giovanni Fosti ha avuto un’ottima idea, sosteniamo dando ancora più soldi, ma sono loro a raccogliere. Ecco la Fondazione puntava a un milione di euro e ora siamo già a 2 milioni e 800mila. E poi ancora le donazioni al Sant’Anna. Sì, è una fortuna che siamo un popolo con una tale generosità che si indirizza verso i bisogni più drammatici. Poi c’è la parte pubblica, con i soldi che mette a disposizione il Governo e gli altri enti. A loro volta devono attrezzarsi per dare una risposta prima di tutto a questo bisogno: bisogna dare da mangiare alla gente. E sostenere il terzo settore, il volontariato che interviene ma non può farlo da solo. Una grossa mano, deve venire dall’ente pubblico.
Anche perché il momento di una svolta non lo vediamo ancora, in questa fase dai numeri ancora così tragici?
Non siamo ancora al picco, ma pare che ci siano i primi segnali lontanissimi. Intanto dobbiamo pensare alla povertà e ai risvolti sociali più drammatici. Io ho visto il dato fornito dal sindaco Sala per Milano: abbiamo circa 50mila milanesi da aiutare. Persone che aspettano una mano – pubblica e privata per avere i mezzi per vivere.
Lei prima affermava: è il problema più urgente. Ma c’è un altro, connesso, che impensierisce non meno, no?
Sì, il secondo è più complicato, perché implica una serie di questioni: non distruggere il tessuto produttivo, prima di tutto. Se l’artigiano chiude, non riapre più lui e non lavora più chi era accanto nella sua bottega. Questo è l’altro problema da affrontare.
Da quali punti di vista è di maggiore difficoltà di soluzione?
È una questione più difficile, perché l’apertura delle aziende implica problemi di garanzia della salute dei lavoratori. Allo stesso tempo, non bisogna creare una condizione per cui le piccole imprese vengono meno.
Anche perché piccolo significa essere più fragile?
Molto più fragile, certo. Non si tratta dei grandi gruppi sul mercato, che hanno a disposizione anche altri strumenti, ma di chi ha sempre vissuto del suo lavoro e ora si trova in crisi per via del virus e della pandemia. Ecco questo problema deve avere un’alta priorità nel nostro Paese.
Il dibattito è intenso tra il mondo delle aziende che chiede una riapertura prima possibile e i sindacati, preoccupati di come ciò possa avvenire.
Questo tema è molto delicato. Prima bisogna pensare alla salute di chi lavora, che non va messa a repentaglio, lo ribadisco. Secondo, però, riflettere su come si possano trovare soluzioni che garantiscono la sicurezza dei lavoratori. E che permettano di non protrarre a lungo questo fermo del tessuto produttivo. Tessuto che altrimenti rischia di lacerarsi irrimediabilmente.
Un mese fa parlavamo dell’allarma coronavirus che si stava materializzando e facevamo un accostamento a un’emergenza che lei aveva gestito da presidente della Regione: Seveso. Un mese, ma sembra passato un anno e più…
Sì, allora non pensavamo che sarebbe avvenuto tutto questo e che potesse durare così a lungo. Adesso si comincia a parlare di riaprire a maggio… anche perché bisogna stare attenti, se si forzano le cose in modo sbagliato, il rischio è elevato. Mi lasci dire poi un’altra cosa. I medici e gli infermieri. L’aspetto più sconvolgente sono le migliaia di morti, quelle bare sui camion dell’Esercito, sicuramente. Ma poi penso ai medici e agli infermieri, appunto: abbiamo mandato allo sbaraglio quelli che lavorano per salvarci. Sono generosi, chiedono protezione ma se non c’è lavorano ugualmente. Penso al dottor Raffaele Giura, un uomo che conoscevo bene, abbiamo visto la sua generosità: sono in pensione, ma torno, vi do una mano…
Un nostro contributo cruciale per gli operatori medici, lo disse però già un mese fa e oggi più forte che mai è restare a casa, appunto. Quei comportamenti saldi che lei già invocava già allora.
Ma poi?
La situazione richiede questo sacrifico di stare a casa. Solo questo ci consente di avvicinare la fase due di cui parla il governo.
Per le aziende però l’aiuto invocato c’è: mica qualche rinvio tiepido di imposte, bensì una sorta di piano Marshall, perché questa è come una guerra. Concorda?
Guardi, dipende molto dall’Europa, perché non abbiamo i mezzi. Vedo che c’è qualche segno di ravvedimento da parte dell’Unione europea, anche da parte dei Paesi del Nord. Altrimenti, noi andiamo alla malora, ma l’Europa non c’è più. L’azione del Governo e del nostro rappresentante in Commissione, Gentiloni, bisogna dare atto che c’è stato. Si è anche costretta la Von der Leyen a chiedere scusa… Quando mai si erano sentite delle scuse?
In questi tempi drammatici sono determinanti le figure di riferimento. Una è Mattarella...
Ah l’esempio di questo presidente. Che non va dal parrucchiere e nel suo messaggio lo dice… come uno di noi, non in un palazzo distante. E poi il Papa, in piazza San Pietro... Una persona è credibile se la gente avverte che vive ciò che dice.
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