«Giovanni amava le balene, poi ha smesso di parlare. La diagnosi? Autismo
Ma alla vita siamo grati»

L’intervista «La parte più difficile è capire a quale specialista rivolgersi - racconta Clarissa Guenzi, che alla storia di suo figlio ha dedicato un libro -. A 20 anni non è in grado di badare a se stesso. Piangere? Non me lo posso permettere»

«C’è stato un periodo in cui mio figlio ripeteva tutto il giorno la stessa frase. Letteralmente tre, quattrocento volte. “Usa la testa”, diceva. Girava per casa e non smetteva di ripeterlo. Oppure: “Ho un dubbio”... Tutto il giorno così. Credevamo di impazzire».

Clarissa Guenzi è la mamma di Giovanni, 20 anni e una diagnosi di autismo risalente a quando ne aveva 13. Docente di lettere al Collegio Gallio, al percorso di suo figlio Clarissa ha dedicato “Che tu sia per me lo specchio” (Tevere edizioni, Bertoni editore, 2024), riepilogo intensissimo di una storia di grandi sofferenze e immani fatiche, ma insieme anche di resistenza e tenacia, alimentate, l’una e l’altra, da un amore immenso e da una incrollabile riconoscenza nei confronti della vita: «Del resto ne sono stata sempre convinta: l’esistenza di un bimbo che nasce e vive un giorno soltanto vale quanto quella di un uomo che campa novant’anni, senza contare che i disabili sono molto più vicini alla vita di quanto lo siamo noi... Sono a contatto con lo spirito, mentre a noi capita spesso di dover rimuovere la calce che ci portiamo dentro».

Quando suo figlio ha iniziato a manifestare i primi problemi?

A Giovanni fu diagnosticato un disturbo specifico dell’apprendimento quando era in seconda elementare. Era disgrafico e discalculico ma con il passare del tempo mi accorgevo che faceva sempre più fatica, tanto più che quando gli parlavo traevo la sensazione che si assentasse. Lo feci visitare da un neuropsichiatra ma all’epoca nessuno mi parlò di autismo. Chissà, se fosse stato diagnosticato prima forse avrebbe potuto avviare fin da subito qualche terapia di quelle che oggi si adottano già a partire dai due, tre anni di vita.

E invece?

E invece nessuno si allarmò fino alle scuole medie, quando le insegnanti ci riferirono che durante l’intervallo percorreva i corridoi a grandi falcate senza relazionarsi con nessuno, e che faticava a guardare gli altri negli occhi. Lo portammo a Milano, dove gli fu diagnosticato un autismo ad alto funzionamento.

Di cosa si tratta?

Giovanni è stato “verbale” fino ai 13 anni, con un quoziente intellettivo nella norma, sebbene avesse un linguaggio povero e manifestasse una significativa lentezza esecutiva con una breve memoria di lavoro. Aveva anche interessi piuttosto ristretti, ma nulla che avesse una valenza patologica. Era autonomo, usciva da solo, giocava regolarmente a calcio e frequentava i campi estivi della parrocchia.

Cosa gli piaceva?

All’epoca gli piacevano le balene, i dinosauri e la Juventus. Se la Juve perdeva aveva reazioni abnormi, piangeva, rifiutava di dormire. Ci sembravano sì segnali di una sensibilità portata all’eccesso, ma non avremmo mai immaginato... Il primo passo dopo la diagnosi fu portarlo a fare psicoterapia per farlo riflettere sulle sue emozioni, su cosa siano rabbia, gioia, tristezza, e sull’organizzazione della giornata, perché gli autistici non si sanno organizzare, non hanno la percezione del tempo. Per dire: Giovanni non ha mai guardato un orologio in vita sua. Certo sa muoversi nella giornata, sa quando si pranza e quando si cena, ma un orologio non l’ha visto né voluto mai, così come non ha voluto mai neppure un telefono. La difficoltà più grande, per lui, è seguire una procedura.

Poi le scuole superiori.

Era il 2018 e quando si trattò di decidere quale frequentare lui iniziò a balbettare e ad assumere comportamenti che non aveva mai avuto: sono comparsi tic facciali e una strana mania di spingere sedie e armadi contro i muri, schiacciandoli con forza, come se dovesse scaricare chissà quali tensioni. Cominciò anche a soffrire di un’ansia pervasiva che gli causava attacchi di panico violentissimi. Quando iniziammo a discutere dell’eventualità di iscriverlo alla scuola di giardinaggio, ad Albese, passava le giornate a svuotare i cassetti, a tirare fuori i vestiti, a stenderli sul letto e a lisciarli con le mani per poi riporli tutti di nuovo al loro posto. Fu allora che perse anche l’uso della parola. Molti medici sostengono che questa regressione sia stata innescata da una forte carica di stress, dalla paura del cambiamento.

Giovanni oggi non parla più?

Oggi parla pochissimo, ma tra il 2018 e il 2022 non pronunciò più una sola parola. Da quell’anno perse anche tutti i suoi ultimi interessi.

A scuola?

Frequenta lo Ial, a Camnago Volta, la cui coordinatrice Tamara Puglia se l’è preso a cuore e sta facendo un ottimo lavoro, come con tutti gli altri studenti, ciascuno con forme di disabilità diverse.

Com’è la gestione dal punto di vista medico?

Giovanni è stato ricoverato più volte: al San Matteo e al Mondino a Pavia, al Besta a Milano, al Sant’Anna, al San Raffaele. Quando nel 2018 le sue condizioni sono peggiorate si è pensato anche all’eventualità di qualche forma di patologia degenerativa, che per fortuna gli esami successivi hanno escluso. È stato visitato da pediatri, neuropsichiatri infantili, neurologi, immunologi, virologi, cardiologi, per capire se dietro a sintomi così abnormi ci fosse una malattia più specificatamente organica, al di là dell’autismo; e poi naturalmente si dovevano considerare le comorbidità.

Per esempio?

C’era il rischio di un disturbo ossessivo compulsivo, che poi si è regolarmente manifestato, così come di altre psicosi sfociate in una sorta di schizofernia. Non ho mai capito se fosse vero o meno ma per un periodo diceva di sentire delle voci nella testa. Io non ne sono convinta, credo che fosse parecchio ecolalico, che tendesse cioè a fornire risposte che riproponevano la domanda che gli veniva posta. Era il periodo in cui ripeteva ossessivamente la stessa frase per tutto il giorno oppure andava con la testa contro le pareti del corridoio, prima da una parte poi dall’altra, così, senza sosta.

In questi casi si ricorre anche ai farmaci?

Lui ha assunto molti antidepressivi e antipsicotici. Anche parecchie benzodiazepine, perché tra le altre cose ha patito anche una gravissima catatonia, il disturbo di chi è sottoposto a uno stress talmente forte da provocare una sorta di autocongelamento. Era come una statua, non si muoveva più, non mangiava, non beveva. È stato ricoverato al Besta per una cura a base di benzodiazepine, tranquillanti che gli hanno abbassato la soglia di stress e gli hanno consentito di uscire da quella condizione. Aveva 16 anni.

Quanto è consapevole Giovanni di quello che gli accade intorno?

È senz’altro consapevole della sua condizione. Quando dopo la catatonia tentammo di nuovo la strada della psicoterapia, capitava spesso che piangesse. Diceva: «Sto perdendo gli anni più belli della mia vita».

E oggi come sta?

Non manifesta emozioni. Quando torna a casa da scuola impiega almeno un’ora prima di sedersi a tavola, e guai a sollecitarlo perché si ribella. Non è mai interessato all’orario, è capace di restare seduto a tavola fino alle 17 e magari gira per casa fino alle 2 di notte. I volontari della Croce rossa che lo vanno a prendere a scuola ci segnalano che a volte per salire in auto impiega non meno di venti minuti.

E con lei che rapporto ha?

Sono convinta che provi emozioni e sentimenti, ma che non riesca a esprimerli. Sembra sempre sfuggente, anche con lo sguardo è difficilissimo agganciarlo. A volte ascolta un po’ di musica con suo fratello, magari balla un po’, e in quei momenti ride. Io raramente ho pianto, soprattutto davanti a lui - anche per non turbarlo -, ma qualche sera fa è capitato che mi sfogassi per tutta la stanchezza e lo stress accumulati in questi anni, e Giovanni, dopo che mi ero un po’ ripresa, mi si è avvicinato e mi ha messo una mano sulla spalla. Gli ho detto: «Grazie Giò».

Contatto fisico?

Di rado. Ogni tanto lo abbraccio, ma mi accorgo che non gli piace. È impressionante vedere quanto i ragazzi come mio figlio siano incapaci di manifestare le loro necessità fisiologiche. Fame, sete, freddo o caldo... Se con la memoria vado a ritroso nel tempo, non ricordo una sola occasione, neppure quand’era molto piccolo, in cui abbia mostrato di “sentire” il suo corpo.

Che prospettive ci sono oggi per i ragazzi come suo figlio?

Intanto è molto difficile trovare gli educatori, insegnanti di sostegno che possano affiancarli a scuola. Per dire: al primo anno di superiori, mi dissero che lo avrebbero tenuto soltanto nel caso in cui avessimo trovato un educatore per affiancarlo. Il Comune non me lo trovava, così abbiamo dovuto arrangiarci. Alla fine ne rintracciammo uno che ci disse di avere a disposizione soltanto cinque ore a settimana, con il risultato che per un periodo Giovanni andò a scuola soltanto cinque ore a settimana. Poi ci sono i problemi relativi a questa sua neurodiversità. È anche difficile capire da chi farlo seguire, da chi farlo visitare, a quale specialista rivolgersi per le cure. Il grande dilemma nostro è stato sempre quello di comprendere se il problema di nostro figlio fosse di natura neurologica o psichiatrica. Ogni caso di autismo fa storia a sé. Oggi, comunque, abbiamo una costante comunicazione con i Servizi sociali di Como, che ci seguono con professionalità.

Come gestisce un genitore questo tipo di emozioni?

Guardi, in questi anni sono stata talmente impegnata a risolvere tutti i problemi che di volta in volta ci si sono presentati, che il tempo per fermarmi non l’ho avuto mai. Come dicevo prima non posso neppure permettermi di piangere. Vivo giorno per giorno, ringraziando di avere accanto un marito pieno di energia, propositivo, che non si abbatte mai. Tante famiglie sarebbero forse già esplose, ma noi fino ad ora siamo stati uniti, insieme ai fratelli di Giovanni, per raggiungere l’obiettivo comune di farlo vivere nel miglior modo possibile. Soprattutto non smettiamo di essere riconoscenti nei confronti di quella che nel libro chiamo “la Vita”. Non è la semplice vita biologica, ma l’amore che dà tutto sé stesso. Ed è anche il senso di quella che per molta gente, e non pochi medici, avremmo dovuto vivere come una tragedia.

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