Giro di permessi di soggiorno falsi: in aula l’ultimo pezzo della banda

Processo Di cento indagati quasi tutti hanno già definito la propria posizion. Dietro l’ideatore del raggiro un folto gruppi di italiani finti datori di lavoro

L’indagine era stata monumentale. Novantanove gli stranieri la cui posizione era stata vagliata, oltre cento indagati la gran parte dei quali avevano definito la propria posizione fin da subito, altri che l’avevano fatto nel corso dell’udienza preliminare, che risale al 2021. Ora, per chi è rimasto a non voler seguire riti alternativi, il fascicolo è arrivato anche in aula con nove imputati che si sono presentati di fronte al giudice Carlo Cecchetti.

Giro di pratiche

L’inchiesta verteva su un enorme giro di pratiche per ottenere i permessi di soggiorno che ruotavano attorno all’ideatore del raggiro – un tunisino residente a Como, 54 anni, che da tempo ha chiuso le proprie pendenze con la giustizia ammettendo tutto – e ad un folto numero di italiani che si offrivano di fingere di essere datori di lavoro oppure di dichiarare falsamente (secondo l’accusa) di essere in procinto di assumere questo o quell’altro straniero.

Dei cento indagati ora nove sono arrivati in aula in un processo che – per buona parte di loro – viaggia sul limite della prescrizione visto che i fatti sono datati, in alcuni casi, addirittura 2014. Anzi, fin dall’apertura del dibattimento il giudice ha già dovuto prendere atto della prescrizione della posizione di una monzese di 55 anni difesa dall’avvocato Massimiliano Galli che è dunque uscita subito dal processo. Per tutti gli altri l’udienza è stata poi rinviata al febbraio del 2025.

Ma il grosso di questo processo, comunque, era già stato fatto con la stragrande parte degli indagati che aveva deciso di non arrivare in aula, patteggiando prima.

La storia era venuta a galla dopo l’esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare eseguita nel 2018, misura che aveva colpito proprio la mente del raggiro che aveva tra l’altro ammesso subito tutto. Per gli stranieri che volevano regolarizzarsi, c’era anche un preciso tariffario cui dovevano sottostare. Chi voleva “solo” buste paga fasulle, poteva sborsare un centinaio di euro, per un certificato di residenza si poteva salire anche a 600 euro, mentre per un contratto di lavoro a tutti gli effetti il costo era di un migliaio di euro.

L’avvio dell’inchiesta

L’indagine era stata portata avanti dagli uomini della squadra Mobile. A far saltare il tappo era stato sempre un tunisino che si era presentato in Questura per lamentarsi del trattamento ricevuto per le pratiche di regolarizzazione, in cui aveva versato la cifra di 4 mila euro. Gli agenti avevano subito intuito che qualcosa in quel racconto non andava e per questo avevano avviato l’inchiesta che si era allargata poi ad oltre cento indagati.

L’indagine aveva abbracciato un lasso di tempo compreso tra il marzo del 2014 e il settembre del 2017. Erano state 99 le pratiche scoperte in cui erano stati utilizzati documenti falsificati. I reati su cui si era indagato erano stati ovviamente il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ma anche il falso.

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