In dieci anni 28mila laureati sul Lario

Università I dati Comune per Comune. In rapporto ai residenti vince Brunate, seguono Carimate e Pusiano - «Un figlio all’università costa 10mila euro all’anno. A volte prevale tra la paura di non essere “tagliati”per lo studio»

Sono oltre 28mila i laureati negli ultimi dieci anni in provincia di Como, suddivisi nei vari Comuni, dal centro città a quelli più isolati nelle frazioni montane. L’università attira ancora tanti ragazzi, anche se va tenuto in considerazione che nella nostra provincia – come, del resto, un po’ in tutta Italia – i giovani sono sempre meno e gli anziani sempre di più. Non tutte le famiglie, inoltre, possono permettersi di mantenere gli studi a uno o più figli, senza contare chi abita nelle zone più isolate e deve quindi affrontare lunghi spostamenti o, il più delle volte, trasferirsi in città.

Nella mappa non compaiono i Comuni di più recente formazione, nati da fusione di altri Comuni, perché i dati risalgono fino al 2014

Nella classifica stilata grazie ai dati messi a disposizione dal ministero dell’Università e della Ricerca, la provincia di Como, nel 2023, si collocava al terzultimo posto in Lombardia per numero di laureati ogni mille abitanti: 5,65. Peggio facevano soltanto Cremona (5,36) e Mantova (5,12).

Per quanto riguarda i Comuni della provincia comasca, al primo posto spicca Brunate con 120 laureati su 1589 cittadini. Fanalino di coda è Dosso del Liro (con un laureato) mentre al penultimo posto c’è Civenna (anche se nel frattempo è diventata frazione di Bellagio) con soli 5 laureati in dieci anni. Como si trova nella parte alta, con 4720 laureati su 83691 abitanti.

I fattori che incidono, come detto, possono essere diversi ma, stando alla classifica, a contare non è certo la dimensione del paese: nella top 10 la maggior parte dei Comuni ha meno di 5mila abitanti. Conta invece la ricchezza media: Carimate, ad esempio, è uno dei Comuni più ricchi della provincia e tra i primi dell’elenco. Considerando il calo demografico e le difficoltà economiche che sempre più famiglie hanno, è probabile che questi numeri siano destinati a scendere nei prossimi anni: c’è comunque da dire che i giovani che scelgono il liceo – più propensi poi a proseguire gli studi – al momento sono ancora la maggior parte. Un interessante spunto di riflessione arriva da Michela Prest, per 12 anni delegata all’orientamento per l’Università dell’Insubria.

«In un recente incontro il rettore della Bocconi, Francesco Billari, che si occupa di demografia, ha citato alcuni numeri, evidenziando che il Paese al mondo con meno laureati è il Messico e il penultimo l’Italia con solo il 29% dei laureati – spiega Prest – In cima c’è la Corea del Sud, con il 70%. Bisogna invertire il trend e la Corea lo ha fatto, ma la domanda che ci facciamo è: perché in Italia non riusciamo a fare la stessa cosa? Ci sono vari fattori da considerare. Innanzitutto fare l’università costa e questo è un dato di fatto. Vero che ci sono le fasce Isee, però le stime che vengono date è che tipicamente mantenere un figlio che va in università costa 10mila euro l’anno e ci sono famiglie che non se lo possono permettere. Poi c’è l’idea che si vada in università solo se si fanno certi tipi di scuole superiori. Chiaro che venendo da una scuola che non affronta certi ambiti è più difficile, quindi spesso si decide di rinunciare. Invece potremmo avere ragazzi da background diversi, l’informazione terziaria crea lo spirito critico alla base della democrazia e l’università deve prendersi in carico anche i giovani che non arrivano da licei e poter far fare loro un bel percorso». E aggiunge: «La nostra è una regione ricca e quindi c’è la sensazione che tutto sommato si possa andare a lavorare subito, perché tipicamente si trova vicino e c’è chi pensa che studiare non serva. Quello che deve passare quando facciamo interventi nelle scuole è che ora la strada è tutta a zig zag e non si sa quali saranno i mestieri del futuro. Quando fai l’università inserisci una serie di strumenti variegati che permettono di crearti il lavoro. Più del 50% dei ragazzi arriva da famiglie dove sono loro i primi laureati. Per i ceti medio bassi c’è anche mancanza di informazione e la paura di affrontare un percorso per cui si pensa di non essere tagliati».

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