
( foto Guido Stazzoni)
L’intervista Il racconto di chi ha vissuto sulla propria pelle le vicissitudini giudiziarie di un famigliare: «Gettata in una storia non mia»
Como
«Gli innominati sono i figli, i fratelli, le mogli, i nipoti di chi ha sbagliato. Trascinati dentro una colpa che non appartiene loro. Sono quelli dimenticati dalla società, condannati a essere soltanto brandelli di una storia più grande». Lei si chiama Maya. Di cognome fa Anderson: non un cognome ignoto alle cronache giudiziarie. Il padre è stato arrestato alcuni anni fa per una complessa indagine su una presunta frode fiscale. Di recente siamo tornati a scrivere di lui, per una coda di quella stessa inchiesta. Ed è dopo quegli articoli che la figlia ci ha scritto una «lettera denuncia contro istituzioni, autorità e figure di potere che banalizzano il dolore di chi è costretto a portare il peso degli errori altrui». E, perché no, anche contro il «caro giornalista: le tue testate sono pietre, e le tue parole affilate come lame».
Abbiamo incontrato Maya. Per farci raccontare la sua storia. E il suo punto di vista.
«Quando hanno arrestato mio padre, mi sono trovata catapultata in una storia non mia. Emotivamente quell’arresto, gli articoli di giornale mi hanno scombussolata. Anche perché noi non siamo stati avvisati dell’arresto e lo abbiamo scoperto perché una conoscente lo ha detto a mia sorella in mezzo alla strada... lo aveva letto sul giornale».
Maya Anderson ha la parlantina brillante di chi ha avuto la forza di dare un nome e un volto alle emozioni provate in un momento complicato della vita di suo padre e quindi della sua famiglia e di se stessa: «Mi sono trovata a chiedermi se qualcuno avesse mai pensato a noi parenti, trascinati in una vicenda che non è la nostra storia. Estranei, eppure protagonisti nostro malgrado. Mi sono domandata dove fosse la sensibilità degli altri». A partire dai giornalisti: «Sono consapevole che non può esserci censura. E per me è fondamentale la professione giornalistica. Ma penso che in certe fasi di una vicenda giudiziaria sia necessario una modalità di divulgazione diversa. E serva un po’ più di tatto. Io ho avuto la fortuna di aver vissuto tutto questo da adulta, ma penso a quei figli che adulti non sono».
La lettera di Maya inizia proprio con la voce di un bambino, che una mattina si sveglia trovando in casa gli agenti che portavano via una persona a lui cara: «Che impatto ha una scena di questo tipo sul resto della sua vita futura? Un’amica mi ha detto che quello che abbiamo vissuto può essere riletto con una visione distopica. Perché sono storie che vanno a contaminare la tua vita passata, visto che cambia il giudizio degli altri. Perché ti fanno perdere il controllo sul tuo presente. E perché finiranno anche per influenzare il futuro».
Maya Anderson inevitabilmente finisce per riannodare il filo dei ricordi: «All’inizio abbiamo incontrato molta disponibilità negli amici e nei conoscenti. Poi qualcosa è cambiato: molti hanno preso le distanze, si sono distaccati. A mia sorella è capitato di essere oggetto di battute e frecciatine. Mi sono chiesta: chissà se la gente giudica la me che hanno conosciuto oppure la me che si trova coinvolta in una storia su cui non ho controllo».
Alle medie, Maya è stata compagna di scuola di una delle figlie di Alberto Arrighi, l’armiere comasco condannato per aver ucciso il socio d’affari. E il pensiero va ora proprio alla sua compagna: «Mentre scrivevo la lettera e pensavo come gli altri possono influenzarci, mi è venuto in mente l’episodio che ha riguardato Alberto Arrighi. Una mattina, in cui le figlie non erano a scuola, siamo stati portati in aula magna e i professori ci hanno sensibilizzato sul tema. Ho pensato che fosse giusto lo facessero, ma ora mi chiedo: è stato l’approccio corretto? Non era meglio contattare i genitori, sensibilizzare loro e far affrontare a loro il confronto con i figli?».
Maya non ha mai abbandonato suo padre: «Ero arrabbiata, con lui. Ma ho fatto di tutto per stargli vicino». E l’impatto con il carcere? «Complicato. Solo dopo due mesi lo abbiamo potuto vedere. Quando arrivi al Bassone è spiazzante. Ho avuto la fortuna di incontrare un agente penitenziario sensibile. Ma quando vai ai colloqui, entri con tutti quanti e ritrovi in un luogo freddo, che poi prende le sembianze quasi di un asilo o di un reparto pediatrico. E poi, nonostante non hai fatto nulla, hai la sensazione di essere trattata come se in qualche modo avessi sbagliato». Poco tatto. Scarsa attenzione. Parole sbagliate: «Ho iniziato un progetto nelle scuole, chiamato Bokeh che vuol dire “sfocato” per parlare degli stereotipi di genere. Ho scoperto come i bias cognitivi colpiscano anche su temi come quello che mi ha riguardato: il fatto di sottolineare sempre che mio padre è nato in Sri Lanka, ad esempio, mentre nulla si dice sull’origine degli altri indagati. Alimenta un’idea stereotipata: straniero uguale reato».
«Cosa mi ha spinto a scrivere la lettera? Forse anche la paura di perdere la mia identità. Di essere sempre nominata come “figlia di...”. Mi sono detta: “non sono io. Non è la mia storia”. Ed eccomi qua.
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