«Io vedova, i miei figli orfani: lo Stato ci ha dimenticati»

L’intervista Cecilia Castagna è la moglie di Antonio Di Giacomo, freddato a Como con due colpi di pistola nell’ottobre del 2009: «Dai killer non ho avuto mai un soldo»

C’è risarcimento e risarcimento. Ce n’è uno morale, come possono esserlo due ergastoli sigillati fino in corte di Cassazione, e ce n’è uno - o quantomeno dovrebbe - di tipo economico, che spesso, soprattutto nei delitti di sangue, resta soltanto impresso in calce a una sentenza.

A Varenna piove, e sembra novembre. Cielo bianchissimo, ciabattoni americani in infradito, lago petrolio. Tira vento di burrasca. «Ho lasciato il telefono al lavoro», sorride Cecilia Castagna Di Giacomo, ma in realtà non importa: 15 anni dopo ci si riconosce ancora, ché per fortuna, alla faccia del tempo, del dolore e della fatica, il volto è lo stesso di quel mese di ottobre del 2009 in cui suo marito Antonio, piccolo imprenditore di Colico, fu freddato con due colpi di pistola alla nuca in un monolocale di via Cinque Giornate, nel pieno del centro storico di Como, senza uno straccio di motivo se non quello (forse) di sottrargli qualche replica d’orologio per la quale sarebbe bastato intimargli di alzare le mani.

La sua, e quella dei suoi tre figli rimasti orfani di padre all’età di 8, 7 e 5 anni, è una storia nera di giustizia abbozzata, sospesa, una storia di risarcimenti ostinatamente negati. Cecilia Castagna è una delle tante vedove della “nera” che non hanno mai visto un centesimo, e che un centesimo non lo vedranno mai. Sentenza alla mano avrebbe dovuto ricevere dai due imputati 600mila euro di risarcimento. «Una cosa, però, vorrei che scrivesse».

Cioè?

E cioè che non è soltanto questione di soldi. La verità è che avremmo potuto non essere più qui. Né io, né i miei bambini. Quando succedono cose come quella che è successa a noi, nessuno è in grado di aiutarti. Sei sola. E la disperazione fa presto a travolgerti.

I parenti?

Certo, i parenti... Chi ha potuto una mano me l’ha data. Ma io mi riferisco allo Stato, al sistema. Per le istituzioni avrei potuto anche morire. Ricordo certe sere in cui rientrando da Lecco con i bimbi in auto mi sono anche chiesta se non sarebbe stato meglio accelerare, tirare diritto alla prima curva e farla finita. Ci ho pensato, sa? Poi per fortuna ho trovato una brava psicologa che mi ha aiutato a capire che avrei dovuto rimboccarmi le maniche, e che avrei dovuto farlo quantomeno per i miei figli. Ma non è stato facile: avevo 44 anni, ero innamoratissima di mio marito e non lavoravo, se non facendo la mamma. All’improvviso mi sono ritrovata vedova, senza lavoro e con tutti i nostri risparmi bloccati, perché avevamo da poco cambiato banca e sul nuovo conto corrente ancora non c’era la mia firma. Mi ritrovai senza un euro in tasca.

Come ve la cavaste?

Con la banca non ci fu nulla da fare. Il conto era intestato ad Antonio e per otto mesi rimase congelato. Ce la cavammo con l’aiuto di qualche amico, una mano me la diede la Caritas di Colico, ma per il resto dovetti ingegnarmi a trovare qualcosa da fare. Mi alzavo all’alba per andare a pulire i bagni delle stazioni.

E i bambini?

Chiesi ai Servizi sociali se avessero avuto qualcuno che poteva badarci, magari una pensionata con del tempo a disposizione. Mi risposero che sì, che c’era, e che sarebbe costata dieci euro all’ora. Io ne guadagnavo sei…

Come stanno oggi i suoi figli?

Hanno 23, 22 e 20 anni. Due sono programmatori, il terzo fa il cuoco a Bergamo. Sono ragazzi eccezionali diventati uomini molto in fretta. Non è stato sempre facile.

I due imputati dell’omicidio di suo marito, Leonardo Panarisi ed Emanuel Cappellato, rimediarono l’ergastolo ma furono anche condannati a risarcirla...

Risultavano entrambi nullatenenti. La moglie di Panarisi, se non sbaglio, aveva una attività commerciale. Ma a lui non era intestato nulla. L’unico bene disponibile risultò essere una sua vecchia Panda. Si figuri.

E le spese legali di costituzione di parte civile?

Ho pagato tutto io, anche se devo dire che il mio avvocato fu sempre molto comprensivo. Applicò tariffe molto basse e mi disse che avrei potuto saldare con calma, se e quando fossi stata nelle condizioni di poterlo fare.

Del processo cosa ricorda?

Senz’altro lo stupore di scoprire che con tali e tanti precedenti penali quegli uomini erano ancora a piede libero. Che poi, vabbè...

Cosa?

Voglio dire: i soldi per pagarsi la difesa li trovarono. Furono assistiti da due avvocati a testa. E comunque ancora oggi continuo a non capire per quale motivo dovettero sparare così, a freddo, quando per rapinare il mio Antonio sarebbe bastato dargli una botta in testa…

Cosa ricorda del giorno in cui le dissero che era stato ucciso?

Tutto. Ricordo tutto... Antonio era sempre puntuale. Alle 19 era a casa. Di solito mi faceva uno squillo pochi minuti prima di arrivare, e se per caso decideva di fermarsi a Lecco per bere un aperitivo con un amico, mi avvertiva. Quella sera non chiamò, e a me parve subito strano. Provai a contattarlo io. Una, due, tre volte, poi chiamai mia suocera ma mi disse che non l’aveva visto, così come non l’aveva visto neppure mia cognata, alla quale avrebbe dovuto portare una cassetta di castagne che gli avevo dato io. Niente. Era sparito nel nulla. I carabinieri mi dissero che per quanto ne sapevano loro, Antonio poteva essere fuori con l’amante… La prima notte se ne andò così.

E il giorno dopo?

Si mobilitarono anche i suoi amici. Cominciammo a temere che fosse uscito con il windsurf, la sua passione. C’era vento, il lago grosso, ma anche lì nessuno lo trovò. Fin quando nel pomeriggio ricevetti la telefonata di mio cognato. L’avevano trovato a Tavernerio, proprio vicino alla casa di suo nipote.

Le dissero subito che era stato ucciso?

No, non mi dissero nulla. Io chiedevo di potermi avvicinare al furgone, ma i poliziotti me lo impedivano. Dicevano che non potevo. Divenni aggressiva, volevo che mi facessero vedere cosa avevano trovato. Dissi che non mi sarei mossa da lì fintanto che non mi avessero mostrato cosa c’era là dentro. Alla fine, il commissario acconsentì a farmi avvicinare.

E?

Antonio era steso immobile. Fu uno choc. Mi misi a urlare.

La tennero sempre aggiornata sulle indagini?

Direi di sì. A mano a mano che emergevano novità, la questura di Como mi informava. Era strano. Mi sentivo come la principessa protagonista di una fiaba che all’improvviso si ritrova dentro un videogioco di mostri e di assassini.

Come lo disse ai suoi figli?

All’inizio fui tentata di dire loro che papà non stava bene e che era stato ricoverato. Poi pensai che raccontando una bugia avrei perduto per sempre la loro fiducia, proprio nel momento in cui più ne avevano bisogno. Così dissi subito la verità, cioè che papà non c’era più.

E oggi?

La vita è ricominciata, simile a quella che vivevo con Antonio. Frequento gli stessi suoi amici del surf a Colico, che mi sono stati sempre di grande aiuto. Senza di loro non sarei mai riuscita a tornare in quel posto. Mi ci accompagnarono un poco per volta, fermandosi e riportandomi a casa appena sentivo che l’emozione e le lacrime mi avrebbero sopraffatta. Oggi mi piace vedere mio figlio più piccolo surfare… Dicono tutti che è identico a suo padre.

Cosa prova nei confronti degli assassini di Antonio?

All’inizio mi stupivo perché la notte, anziché vedere mio marito, mi trovavo di fronte le facce di quei due. Poi ho dovuto farmi forza, rassegnarmi, cercare strade alternative alla vita di dolore e rancore che stavo vivendo. Pensi che arrivai a pesare 42 chili, ero pelle e ossa. Capii che la rabbia mi stava divorando, e che i bambini avevano bisogno di una madre che stesse bene. In qualche modo voltai pagina.

Come si sente oggi?

Mi porto sempre tanta amarezza per come lo Stato si comporta nei confronti delle vedove come me, non dico solo di chi abbia perso un marito nelle circostanze in cui l’ho perso io, ma anche, per esempio, per chi lo perde in seguito a un incidente sul lavoro. Una madre non può essere abbandonata come sono stata abbandonata io. Davvero, ho fatto di tutto: ho lavorato un po’ in Navigazione a Piona, ho lavorato facendo le pulizie, ho lavorato come barista, ho lavorato per anni sette giorni su sette lasciando che i bambini si arrangiassero per poterli mandare d’estate in colonia, e regalare loro un po’ di vacanza. Ho fatto di tutto, ma per lo Stato, per il “sistema”, oggi saremmo probabilmente morti anche noi.

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