«La giustizia funziona. La sentenza paratie lo dimostra»

L’intervista Massimo Astori, procuratore capo di Como: «Dobbiamo perseguire i reati non perseguitare le persone»

si perseguono reati, non persone». Non sappiamo se lui sia d’accordo, ma se dovessimo scegliere potrebbe essere questo il motto in grado sintetizzare lo spirito con cui Massimo Astori ha preso la guida della Procura di Como. Comasco di nascita e di studi, da oltre vent’anni sostituto al palazzo di giustizia di largo Spallino, Astori è stato nominato dal Csm con un’indicazione all’unanimità, nonostante la concorrente sembrava favorita in quanto già ricopriva un incarico direttivo.

Stupito della nomina?

No, non la davo certo per scontato, ma stupito non direi.

Diventare procuratore dove si conosce tutti, può essere imbarazzante?

Non direi, certo è una situazione a doppio taglio. La conoscenza dell’ufficio avvantaggia ovviamente: conosci il territorio, la polizia giudiziaria, i meccanismi interni e le persone. Vero che è più semplice intervenire in un ufficio dove non si conoscono i collaboratori, perché nei momenti di discussione questo può essere un vantaggio, Ma il buonsenso vince su tutto.

Pochi giorni fa il Consiglio giudiziario, emanazione territoriale del Csm, è stato a Como per verificare lo stato di salute della giustizia in questo palazzo. Qual è stato l’esito?

Per quanto riguarda la Procura lo stato di salute buono, ma va detto che siamo passati da una condizione da “ottimo” a una da “buono“. Abbiamo mantenuto gli standard perché siamo riusciti a far fronte a situazioni di difficoltà oggettiva.

Parla della carenza di organico?

Non solo. Teniamo conto che il nostro è un circondario di 600mila persone, con cinque valichi di frontiera, che comportano un gran lavoro anche sul fronte dell’immigrazione: ad esempio solo lo scorso anno abbiamo avuto 4151 restituzioni di stranieri espulsi dalla Svizzera; gran arte del territorio, poi, ha vincoli ambientali e paesaggistici, abbiamo un’impresa produttiva ogni 14 abitanti e una presenza turista di 4,5 milioni di persone l’anno. Sono numeri importanti, che noi dovremmo affrontare con una pianta organica di 99 persone, ovvero 12 magistrati, 12 viceprocuratori onorari, 38 amministrativi e 39 uomini della polizia giudiziaria, ma che in realtà affrontiamo con 9 magistrati e una scopertura di personale amministrativo che arriva al 40%.

Questo che conseguenze ha?

Nel 2023 sono transitati 21mila procedimenti penali. Nel primo semestre 2024 10817 e la proiezione sull’anno parla di un incremento. Tutto questo è un numero elevatissimo per 9 sostituti e un procuratore, ma nonostante questo siamo riusciti a limitare quasi totalmente l’accumulo. Però questo ha un rischio.

Quale?

L’imposizione di termini strettissimi per le indagini penalizza la qualità. Non dobbiamo cedere all’idea che la Procura debba piegarsi a criteri aziendali: noi non siamo un’azienda, noi produciamo attività giudiziaria, in cui intervengono fattori non ponderabili o misurabili in termini di azienda. Se noi riduciamo tutto a numeri faremmo un pessimo servizio.

E il resto del Tribunale?

Noi produciamo tanto rispetto a imbuto troppo stretto che è, appunto, il Tribunale: i giudici delle indagini preliminari sono pochi, solo due collegi giudicati in dibattimento non sono sufficienti. Purtroppo ci aspettano anni difficili: le comunicazione di notizie reato sono tantissime, i tempi più stretti, il personale sempre meno.

Tutto questo, peraltro, in un quadro storico in cui la magistratura non vive di grande considerazione. Come giudica questa perdita di fiducia?

Scontiamo il lato negativo di un fenomeno positivo: l’accorciamento delle distanze tra istituzioni e persone. Tutto giusto, è la democrazia. Ma allo stesso tempo ti espone più facilmente ad attacchi e giudizi frutto da malinformazione. Il processo mediato è un esempio tipico: crea l’idea in tutti che sia un lavoro semplice, che fare un processo sia tutto sommato agevole, e tutto viene letto come in una partita di calcio dove chiunque si fa allenatori. Invece la macchina è complicata, perché ci vuole un sapere raffinato e un equilibrio personale che si forma non certo con una trasmissione tv. Questa sovraesposizione porta con sé uno slittamento dalla giusta critica e dal giusto controllo ad attacchi impropri, sguaiati e non sorretti da argomentazioni.

Forse non aiutano neppure inchieste come quelle sulle paratie, dove a fronte di arresti e decine di imputazioni, si è arrivati a una sostanziale assoluzione di quasi tutte le contestazioni. Non crede?

Il caso paratie è invece la dimostrazione che la magistratura funziona. Quando la Cassazione pronuncia assoluzioni anche a fronte di processi grossi vuol dire che tutto il sistema funziona. Ovviamente la Procura di Como ha fatto anche tanti altri procedimenti di grosso impatto e dimensioni notevoli anche sul fronte della pubblica amministrazione finiti con una percentuale elevatissima. Per le paratie se la Cassazione ha valutato l’assoluzione vuol dire che è giusto così. Probabilmente c’erano degli elementi valutati in modo sbagliato e difforme. Una cosa è certa: la Procura deve evitare processi affetti da gigantismo, poco gestibili. E, come ho detto al Consiglio giudiziario, ricordiamoci che il pubblico ministero persegue i reati e non perseguita le persone.

A proposito di reati, qual è il quadro nel Comasco?

La violenza di genere è l’area che maggiormente impegna la Procura. Quando sono arrivato a Como, 26 anni fa, i maltrattamenti in famiglia erano sconosciuti o quasi come reati. Ora è uno dei più denunciati. Lo stesso vale per reati sessuali. La domanda che tutti si fanno è: sono aumentati perché più denunciati o perché sono cresciuti i reati stessi? Sono veri entrambi i due fenomeni: c’è più consapevolezza nelle vittime sulla necessità di denunciare, ma dall’altra sono sicuramente aumentati.

Ha qualche numero al riguardo?

L’area specialistica, che prima si chiamava “contro i soggetti deboli” e io ho voluto ribattezzare “violenza di genere, domestica e sessuale”, perché anche dal punto di vista semantico è sbagliato parlare delle donne, che sono il 90% delle vittime di questi reati, come soggetti deboli, nell’ultimo trimestre ha visto l’iscrizione di 159 nuovi fascicoli, di questi in 20 sono stati emesse misure cautelari.

Comunque lo si chiami resta un fenomeno allarmante, anche alla luce dei femminicidi. Secondo lei ci sono gli strumenti adeguati per perseguire questi reati?

Purtroppo la produzione legislativa di questi ultimi 15 anni è stata segnata dalla rincorsa dei casi eclatanti e delle emergenze del momento, una rincorsa che produce frustrazione, perché si ha l’idea che il fenomeno sia ingovernabile. In realtà dobbiamo toglierci l’idea che tutto questo sia gestibile solo attraverso la via giudiziaria. Quando si dice che il problema è culturale non è uno slogan. Nelle scuole scopri che questo terreno è poco conosciuto dai giovani e poco inquadrato nella sua portata. Ed è un fenomeno culturale.

Infine, che rapporto c’è tra Procura e avvocatura?

Molto buono. C’è collaborazione: abbiamo concluso protocolli operativi in vari settori. . Certo le posizioni spesso sono distanti, ma questo fa parte della dialettica e del dibattito nel settore della politica giudiziaria. L’impegno è ovviamente a un aumento di qualità e di riduzione dei tempi compatibilmente con limiti dei oggettivi».

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