La “setta” delle violenze: assolte le due comasche

Il processo Solo una condanna per l’inchiesta sui presunti abusi sessuali. Alcuni coinvolti accusati pure di riduzione in schiavitù, ma l’accusa è caduta

L’accusa era pesantissima: associazione per delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù e alla violenza sessuale. Eppure, dei 26 imputati finiti a processo di fronte alla Corte d’Assise di Novara, comprese due comasche, solo una donna ne è uscita con una condanna dopo che le altre posizioni erano cadute una dopo l’altra, per assoluzioni nel merito oppure per prescrizione. Proprio quello che è capitato al reato associativo, per cui non è stata riconosciuta l’aggravante della schiavitù e che si è dunque concluso con una serie di «non doversi procedere» vista l’estinzione del reato per prescrizione.

Tra gli imputati cui veniva contestato solo il reato associativo, senza dunque reati specifici di violenza sessuale, c’erano anche due donne di Como, uscite dal processo senza alcuna condanna. È l’epilogo dell’inchiesta sulla cosiddetta “psico-setta delle bestie”, così chiamata perché molti presunti adepti utilizzavano tra loro nomi di animali.

La sentenza

Nei guai, ora scagionate, erano finite le comasche Manuela Carolei (75 anni) e Lisa Furini, per qualche tempo residente in città e oggi a Milano (42 anni). Anche per loro dunque è stata letta la sentenza di «non doversi procedere». La Corte d’Assise di Novara ha comunque letto almeno una condanna su 26 imputati, quella per una donna di Cormano (in provincia di Milano) di 52 anni, ritenuta essere dalla squadra Mobile che aveva condotto le indagini la portavoce del capo della presunta setta (nel frattempo deceduto) che in aula ha rimediato 6 anni per una violenza sessuale di gruppo con vittima una giovane oggi quasi quarantenne, fatto avvenuto nel 2012 a Cerano in provincia di Novara.

La ricostruzione che era stata ipotizzata dagli inquirenti parlava di iniziali approcci per «pratiche magiche» utili per annullare quello che veniva definito «l’io pensante» per accendere quel «fuoco interiore» che consentiva di entrare in un «mondo fantastico e segretissimo». Le pratiche – secondo la tesi accusatoria – sfociavano poi in alto, ovvero in orge – nel Milanese, nel Pavese, in Liguria – con anche attività pubbliche che fungevano come punti cardine per l’adescamento di nuove vittime.

A capo di tutto per gli agenti della Mobile c’era il “Dottore”, detto anche il “Pontefice”, quello che per la presunta setta era il tramite tra il mondo terreno e quello spirituale ma che è deceduto prima della conclusione del processo. Erano cinque le parti civili costituite. Il pm novarese aveva chiesto in tutto 230 anni di carcere. Dopo la decisione della Corte d’Assise, non ha escluso un eventuale ricorso in Appello. Le difese avevano invece negato ogni associazione con scopi perversi riferendo invece di mondi intellettuali e filosofici, di amicizia, armonia e condivisione.

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