Louis Lumière, regista vero: precursore di Fellini

In un numero de “L’Ordine” dedicato al 130° anniversario del cinematografo, il regista Paolo Lipari scopre un’affinità tra il primo film della storia “Otto e mezzo”. Potete anche vederla nel videomontaggio che ha preparato per noi

Lione, marzo 1895. Bisogna sbrigarsi: il 22, a Parigi, c’è da presentare la nuova invenzione! Si tratterà di una dimostrazione per addetti ai lavori, non ancora destinata al grande pubblico. Il contesto potrebbe preannunciarsi persino noioso: una conferenza sullo sviluppo dell’industria fotografica in Francia. Ma, sotto al cilindro, è pronto un coup de théâtre...

Louis Lumière, ventun anni, non sta più nella pelle. Per la ripresa (17 m. di pellicola equivalenti a meno di un minuto) ha già predisposto tutto: un soggetto facile da gestire, vicinissimo, anzi già in casa: la fabbrica di papà. Ha chiaro anche l’orario di convocazione: la pausa pranzo, quando il sole non produce ombre fastidiose e le maestranze possono essere sottratte al lavoro quotidiano. Sì, ma il sole...? Il più insostituibile collaboratore si fa desiderare. Le giornate si susseguono uggiose. Ma ecco finalmente una perfetta giornata primaverile! È il 19 marzo. Devo dirlo: è il giorno del mio compleanno, il che mi consente di millantare di essere nato insieme al cinema... Ma al di là di questa annotazione spudoratamente personale, la data è storica: è l’alba di un’arte, un’industria, un linguaggio che segneranno i secoli a venire.

Come ha felicemente teorizzato Francesco Casetti, ancora oggi, dopo centoquarant’anni, lo spettacolo prodotto da quel primo giro di manovella, al di là delle apparenze, è ancora vivo, più che mai. Si moltiplica, si ricolloca, si espande nella forma di una gigantesca articolazione astrale: la Galassia Lumière.

In effetti, a rivedere “La sortie des usines Lumière a Lyon”, lo sguardo di oggi, per quanto consumato da una bulimia spettatoriale, non può che riconoscervi, con stupore e commozione, un fascino che gli è ben famigliare: in una forma ancora nativa, ritrova lì tutto il cinema che verrà. Quei quarantacinque secondi non sono solo un esperimento scientifico. Sono, a tutti gli effetti, il primo film della storia.

Per molto tempo ci si è fermati al valore funzionale di quella ripresa. Come se si trattasse di un “tranche de vie” catturato dalla quotidianità lionese solo a titolo dimostrativo. In contrapposizione con il genio creativo di George Mèliès, Louis Lumière è stato a lungo confinato nel ruolo di “tecnico inventore”. Ma proviamo a rivedere con la dovuta attenzione quella benedetta scena... È spettacolo, racconto, poesia. È grande cinema.

Spettacolo

Lumière si è subito posto una questione da autentico regista e non da ingegnere: come posso colpire, emozionare, fare mio lo spettatore? La risposta la trovò in casa e non fu per nulla scontata. Pensò a una scena di massa. Non solo: la volle in crescendo. Pensò allo sgorgare di un fiume umano.

Fece in modo che il movimento non fosse confuso, tale da disturbare la visione. Da perfetto regista di film d’azione, diede disposizione perché “les figurants” (operai veri, non attori, ma significativamente li chiamava così) si dirigessero con il loro bel cestino in parte a destra, in parte a sinistra, mai verso la macchina, per una equilibrata distribuzione visiva.

Non abbiamo purtroppo un diario di quei giorni, ma forse è intrigante provare a ricostruire il backstage del film attraverso quello che le immagini propongono. Ad agevolarci è il fatto che di quella famosa uscita, Louis Lumière realizzò svariati remake (la domanda era altissima). E quello che traspare dal confronto tra le varie versioni è la puntuale fedeltà non solo a un generico soggetto ma a specifiche dinamiche in scena. Insomma: c’era una sceneggiatura.

Tra le operaie, c’è chi tira per il grembiule la collega perché sbaglia strada, chi non rispetta l’imperativo di ignorare la presenza dell’operatore, chi rientra per guardare, chi sbircia da dietro lo spigolo... Indoviniamo la voce tuonante del regista: “Action! Plus rapide...!”. Percepiamo che rue Saint Victor (successivamente ribattezzata rue du Premier Film) quel giorno divenne un animatissimo set con attori, assistenti, oggetti scena...

Racconto

“L’uscita dalle officine Lumière” è di una genialità registica che mi pare ancora disconosciuta, offuscata dal primato che quel film si assicurò in termini storici. In realtà, provate a pensare: Louis aveva a disposizione un rullo, dunque quarantacinque secondi per riprendere un pezzo di realtà. E cosa va a scegliere? Una scena quotidiana con un inizio e una fine distanziati precisamente da questa durata. Avrebbe potuto riprendere genericamente la strada o il cortile... E invece no: registra tutto ciò che accade tra l’aprirsi e il richiudersi di un portone. Geniale!

L’effetto è indubbiamente teatrale: le porte sono due e non tre come nel teatro greco, ma la scenografia evoca immediatamente l’idea di un palco cui accedono gli attori per uno spettacolare ingresso in scena. E la porta a sinistra, più piccola, propone subito un racconto più intimo, raccolto, rispetto al portone più imponente e funzionale. In una versione, sulla soglia, vediamo attendere il “via!” una donna con in braccio un bambino. Il messaggio è intimo, sottile, non certo epico come in Giuseppe da Volpedo. Ma a sottolinearne il senso, è, in un’altra versione, il permanere di una carrozzina nello spazio al di là del vano.

Teatro ma anche letteratura. Rispettando perfettamente la struttura narrativa che oggi lo storytelling insegna, Lumière sente che a un certo punto deve accadere qualcosa, deve esserci un “incidente”, e lo pone proprio al centro del film. D’un tratto assistiamo infatti a un piccolo scontro accidentale, un inciampo che ci suscita un sorriso. In una versione l’episodio è più accentuato: un operaio in grembiule si fa rincorrere da un cane che per poco non travolge un ciclista. Già, le biciclette...! Ne vediamo avanzare diverse, esibite come inequivocabili segnali di modernità. Ma la loro apparizione ha anche una funzione scenica. Accelerando il ritmo, preannunciano il gran finale: l’uscita della carrozza! In una versione i cavalli da tiro sono due, in un’altra uno, in un’altra ancora il finale è più malinconico ma preciso: il sipario, ovvero il portone, si richiude nel silenzio, proprio all’ultimo frame. Come in un sospiro.

Poesia

È questa la componente forse più segreta ma anche più preziosa del film: il suo essere metafora della vita stessa.

La fuoriuscita di donne, uomini, bambini, mezzi, animali ha una valenza fantasmagorica. Ci viene da immaginarla colta dallo sguardo di un neonato, ancora sorpreso da ogni dato visivo, così come dagli occhi ormai stanchi di un vecchio, abbandonato a un libero sgorgare dei ricordi...

Rivedendola, mi è venuta in mente una cosa cui non avevo mai pensato: c’è una scena nella storia del nostro cinema che assomiglia nel profondo a “La sortie des usines Lumière”. È il finale di “Otto e mezzo” di Federico Fellini. Anche lì l’energico comando del regista per l’aprirsi del sipario e la successiva fuoriuscita, a cascata, di figurine liete di intraprendere il loro passaggio sulla passerella del mondo, ignare che quella loro sfilata durerà il tragitto di un rullo lungo soltanto 17 metri.

Quell’indimenticabile finale fu un po’ l’“Uscita dall’officina Fellini”...

Se l’accostamento tra le due scene vi dovesse incuriosire, ho preparato per voi un piccolo montaggio dove il sonoro felliniano si sposa con i fragili fotogrammi dei Lumière. Un piccolo omaggio a chi, nella forma più emozionante, ci ha rivelato che la vita assomiglia al cinema più di quanto il cinema si impegni ad assomigliare ad essa.

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