Non è un lavoro per giovani: «aziende ferme al passato»

L’intervista Alessandro Rosina, coordinatore dell’Osservatorio dell’Istituto Toniolo: «I ragazzi vogliono portare se stessi nella professione»

«Siamo in un momento chiave, in cui il Paese deve trovare la strada giusta investendo sulle nuove generazioni e valorizzandole. Oppure si va verso un declino irreversibile, con squilibri demografici che peseranno sulla popolazione anziana, perché saranno i giovani che se ne andranno». Lo afferma Alessandro Rosina, coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo e demografo dell’Università Cattolica.

Professore, conferma che ci sia un allontanamento dei giovani dal lavoro?

No, è una visione semplificata della realtà e ci arriva dalle aziende, che non capiscono che le nuove generazioni hanno aspetti antropologici diversi anche nell’interpretare il mondo in cui vivono e l’idea di lavoro in cambiamento. I giovani sono nel ventunesimo secolo, mentre i datori di lavoro sono cresciuti in un’idea di lavoro novecentesca. L’idea di lavoro del tempo attuale si sta formando nella testa delle nuove generazioni, che pensano a un lavoro che funzioni sia per loro sia per questi tempi nuovi in cui vivono.

Qual è il rischio di non adeguarsi ai tempi?

Se non si aiutano i giovani a sviluppare questa loro nuova idea di lavoro si allontanano, come ha detto giustamente il nostro Presidente Mattarella che nel tradizionale discorso di fine anno ha ricordato che troppo spesso i giovani italiani si sentono fuori posto nella scuola, quando questa non va incontro alle nuove modalità di apprendimento, e nelle aziende dove viene detto ai giovani che ’si è sempre fatto così, o ti adatti oppure significa che non hai una giusta concezione del lavoro’.

Perché far leva sull’entità dello stipendio sembra non aver presa sui giovani?

I giovani non sono più disposti a pensare che il datore di lavoro dà uno stipendio in cambio del loro tempo e prestazione di lavoro. Ha funzionato nel Novecento, quando tutto funzionava sulla quantità: di produzione, di consumo, di ore lavorate in funzione della quantità di soldi e delle ore di lavoro. In questo secolo non può più funzionare: se pensiamo che il ventunesimo secolo debba essere quello della qualità della crescita allora conta la qualità del lavoro. E conta quindi ciò che si può portare nel mondo del lavoro, che non è solo il rapporto di scambio ore di lavoro-stipendio come chiedono le aziende.

Qual è oggi l’idea di lavoro dei giovani?

Oggi i giovani nel lavoro vogliono portare sé stessi, ciò che di specifico hanno, che li realizza nella vita e che li fa sentire al loro posto nel fare qualcosa in cui si identificano e che viene riconosciuto come valore. Questo cercano in un ambiente di lavoro, ma faticano a trovarlo. Non vogliono portare competenze che possono essere portare anche da qualsiasi altro, vogliono portare aspetti specifici che siano riconosciuti.

Quindi le aziende non riescono a dare risposte?

Le aziende non riescono a mettersi in sintonia con le persone, mettendole al centro dei processi di lavoro, anche in quelli produttivi, riconoscendo il valore che i giovani possono dare al di là delle competenze tecniche e in funzione di processi in cui vengono inseriti e che cambiano anche l’azienda stessa attraverso il nuovo che arriva grazie ai giovani assunti. Tutto ciò porta una nuova visione in grado di innovare anche i processi organizzativi e produttivi ed è questo che ingaggia i giovani, che non se ne vanno quando in un’azienda trovano tale valore aggiunto.

Le aziende non devono semplicemente riversare sui giovani ciò che esse vogliono da loro.

Con l’aspetto della quantità legata a salario e tempo di lavoro si devono comunque fare i conti, dal momento che anche ai giovani interessa anche avere i mezzi per soddisfare il lato materiale del benessere di vita?

Sì, ma l’aspetto salariale non è più sufficiente a motivare i ragazzi. Il salario certamente continua ad essere importante, soprattutto in Italia dove i giovani tendono ad essere pagati di meno rispetto a generazioni adulte e rispetto a coetanei di altri Paesi. Ma non è lo stipendio ciò che li ingaggia: anche se si offrono aumenti salariali se ne vanno.

E di solito ad andarsene sono i veri talenti. I giovani agiscono in difesa di fronte al rischio di essere sfrattati e, data la precarietà che hanno subito, si presentano con diffidenza nei colloqui di lavoro, dove chiedono quanto sarebbero pagati, per quante ore settimanali, se devono o meno lavorare anche nel fine di settimana.

Agiscono in difesa nel timore di trovarsi in un contesto che li sfrutta e che non dà loro il riconoscimento di base che si aspettano.

Ma ciò non basta. Bisogna andare incontro alla specifica novità che loro portano, bisogna che vedano l’investimento su di loro e la disponibilità del contesto aziendale di cambiare in funzione di quello che li farebbe rendere al meglio.

Tutto cambia quando ciò accade?

Quando scatta questo, i ragazzi non ragionano più in difesa ma in attacco, senza guardare all’orario di lavoro, lavorando anche nel fine settimana, perché superano la barriera di diffidenza ed entrano in un processo in cui vedono cose positive in cui si riconoscono e crea vantaggio all’azienda facendoli crescere. A quel punto i giovani diventano i migliori lavoratori possibili che un’azienda potrebbe avere.

Una recente ricerca ha rivelato una scarsa fedeltà dei lavoratori verso l’azienda: i giovani risentono di una tendenza più ampia?

Sì, ma dobbiamo anche non essere ipocriti: quando c’è stata la fedeltà dell’azienda verso i lavoratori? Mai. Il modello è assumere i giovani, poi licenziarli, prenderne altri. Tutto con contratti brevi, sottopagati. I giovani finora sono stati trattati così.

L’azienda si aspetta fedeltà dai giovani lavoratori?

Finora li ha usati come manodopera a basso costo di cui disfarsi facilmente, con tutto un mercato del lavoro andato in questa direzione creando precarietà ai giovani. Ciò ha creato un’elevata diffidenza dei giovani verso le imprese. Di per sé i giovani restano in azienda se si trovano bene sotto vari punti di vista. Se le esperienze sono positive, se capiscono che un’azienda è autenticamente disposta a valorizzarli e a metterli in condizione di dare il meglio di sé allora rimangono.

Anche per questo le aziende riferiscono che nei colloqui di lavoro aumenta il potere negoziale dei giovani?

Esattamente, e le aziende hanno grande timore di ciò, che le spiazza e le impaurisce. Finora ad avere il coltello dalla parte del manico erano le aziende, ora la situazione si è ribaltata: i giovani sono di meno, quelli ben preparati sono una risorsa preziosa per le transizioni digitale e ambientale in corso e sono loro a decidere dove andare.

Quanto la situazione demografica peggiorerà la situazione?

Non abbiamo mai vissuto un momento demografico come questo. I giovani sono sempre stati un bene largamente disponibile all’interno della società e dell’economia del passato. Cresce il numero di lavoratori maturi mentre i giovani sono in forte contrazione.

Se non si inverte la tendenza sia valorizzando meglio i ragazzi e sia mettendoli in condizione di realizzarsi in percorsi formativi, professionali e di vita (con redditi adeguati e possibilità di conciliazione tra lavoro e famiglia) sprechiamo i pochi che abbiamo con la conseguenza che rinuncino al lavoro con effetti sulla possibilità di metter su famiglia facendo dei figli. O emigreranno facendo crescere altri Paesi europei.

© Riproduzione riservata

© RIPRODUZIONE RISERVATA