Cronaca / Como città
Martedì 17 Novembre 2020
«Quanto corre l’epidemia a Como
Peggio in Italia c’è solo Varese»
L’epidemiologo Carlo La Vecchia a La Provincia: «Sul Lario 850 casi su 100mila abitanti, Monza e Milano stanno meglio con 800 e 700 positivi»
La seconda ondata ha già portato via duecento comaschi, l’inverno è lungo e la paura è di dover piangere ancora tanti concittadini. L’andamento dell’epidemia a Como è uno dei peggiori d’Italia.
«In termini comparativi le due province oggi più segnate sono prima Varese e poi Como – spiega il professor Carlo La Vecchia, epidemiologo dell’Università degli Studi di Milano – a Varese l’incidenza settimanale è attorno ai 900 casi ogni 100mila abitanti, a Como circa 850. Segue Monza con 800 casi certificati e quindi Milano con 700. Ciononostante per il momento la seconda ondata ha fatto meno vittime. Tra il 5 ottobre, il primo giorno della ripresa epidemica e oggi, la salita è stata meno drammatica rispetto a marzo».
«In primavera -prosegue lo specialista - contavamo in Lombardia circa 500 decessi al giorno, molti altri forse non venivano nemmeno certificati come casi Covid. Adesso siamo attorno ai 150 al giorno. Cinque volte meno. Questo perché a marzo avevamo saturato ovunque i posti nelle cure specialistiche, adesso i ricoveri nella terapia intensiva crescono meno, siamo lontani dal tutto esaurito in molte province. Il collasso era concentrato sui pronto soccorsi che sebbene ancora adesso siano in difficoltà possono contare su reti esterne per la cura dei pazienti di moderata gravità».
La cosa urgente da fare secondo il professore è riconvertire gli ospedali vecchi e i padiglioni per seguire i pazienti non gravi. Non gli asintomatici, ma persone che hanno bisogno di cure. Al 16 di aprile nel Comasco per colpa del Covid erano spirate 286 persone. Ieri nella seconda ondata contavamo 190 vittime.
«Le perdite sono indubbiamente tante – spiega La Vecchia – e non vengono in realtà tanto dalle terapie intensive, ma dai pronto soccorso e dalle residenze per anziani. Ma adesso intravediamo un calo, una speranza, un effetto del lockdown. I timori per i prossimi mesi restano leciti. La frequenza dei contagi però è stata alta in questo mese e ci ha conferito un certo grado d’immunità. Poi a fine dicembre arriverà l’influenza, ma non dovrebbe sovrapporsi con il Covid che ci ha già dato una forte sferzata. Quindi si entra nel campo dell’imprevedibile. Il Covid resta un virus invernale e non sappiamo dire cosa accadrà a gennaio. Questa seconda ondata è stata più forte del previsto e anche territori come il Comasco e il Varesotto dovrebbero ormai essere meno indifesi, come accaduto tra marzo e aprile alla Bergamasca». In qualche maniera ci siamo arrivati da soli. Il Covid si è diffuso in maniera radicata nella popolazione, chi ha avuto gli strumenti e la forza fisica per riuscire a superare la malattia ora, per quanto a lungo non è dato sapersi, è salvo. I fragili e i grandi anziani se ne sono invece andati. Sta vincendo l’immunità di gregge? «La tesi dell’immunità di gregge preferiva lasciare campo aperto al virus – dice l’epidemiologo – in maniera tale che si diffondesse e che la comunità diventasse immune. Questo però avrebbe provocato un numero incredibilmente superiore di morti. Non controllare è irragionevole. Abbiamo cercato entro le nostre possibilità di contrastare la pandemia. Altrove i servizi sanitari avendo molti più posti letto sono riusciti a curare un numero maggiore di malati e a difendere meglio le fragilità».
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