on ci restano che il coraggio degli uomini di buona volontà e la speranza per uscire da questa preistoria moderna che è la pandemia. Ben vengano, dunque, l’Inno d’Italia risuonato l’altra mattina da tutte le radio del Paese e le tantissime iniziative di volontariato che danno il senso di una comunità che cerca di ritrovare se stessa: un patriottismo spontaneo e amichevole. Un’Italia che amiamo nel segno della fratellanza. L’Inno di Mameli, fra i pochi riti collettivi consentiti e quasi l’estrema risorsa sentimentale dei naufraghi, che a Bergamo viene accompagnato dal più sanguigno “Mola mia”, mentre nella guerra asimmetrica ingaggiata dal coronavirus (un killer apolide, senza volto, che travalica le frontiere), l’epidemia calpesta tragicamente quel Lombardo-Veneto dalle ascendenze risorgimentali.
Segnali incoraggianti il moltiplicarsi dello spendersi collettivo nella crescita di un senso comune alimentato dal valore della sfera pubblica, dal primato dello Stato e dei corpi intermedi della società e dalla solidarietà. Al “distanziamento sociale”, l’imperativo che suona come il discrimine fra la vita e la morte, si contrappone la vicinanza di cuore. Si può essere sorpresi da questa coralità, oppure ritrovarsi confermati da un retroterra culturale e fattivo, parole e azioni, da sempre al lavoro e oggi valorizzato.
L’Italia è una nazione ancora giovane (in questi giorni si sono ricordati i 159 anni dell’Unità) e dalle istituzioni deboli. L’epidemia, come una ramazza, ha spazzato via un certo alfabeto e taluni riflessi condizionati che ora ci paiono di un’altra era e inservibili: la piccola patria, l’autosufficienza individuale e dei territori, l’essere padroni a casa nostra. L’emergenza sta invece dicendo che l’unità del Paese e la coesione nazionale passano attraverso il rafforzamento dei presidi decisionali. Occorre scegliere e in tempi rapidi. Sotto traccia si coglie un linguaggio diverso fra il centro e la periferia, una redistribuzione di poteri che può diventare conflittuale: si notano alcune dissonanze e i linguaggi paiono differenti. La domanda è se il regionalismo frantumato nel numero e nella dimensione sia un beneficio o un costo.
I comportamenti inclusivi ora sono quasi totali, ma sono stati corretti in corso d’opera. L’insistenza iniziale sul virus che colpiva gli anziani e i soggetti vulnerabili, restringendo così il presunto campo d’azione del morbo, ha favorito un approccio utilitaristico nell’interpretazione dei dati e il disimpegno nei termini di responsabilità collettiva in doloroso contrasto con il personale sanitario che lotta per la vita dei contagiati.
La grande fuga dal Nord al Sud è stata poi tanto spettacolare quanto ingloriosa. Si dice, un po’ sbrigativamente, che l’epidemia è “democratica”, in quanto colpisce tutti e a casaccio. Siamo tutti sulla stessa barca, ma l’emergenza ha costi disuguali: c’è chi è costretto a esporsi di più e a rischiare di più. Compresi gli invisibili, quelli dei lavoretti del capitalismo smart.
Si è evitato fortunatamente, e non era esattamente scontato sulle prime, una competizione fra le ragioni del mercato e della produzione e quelle della salute. Si è scelto, in modo necessario nel senso di obbligato, la primazia della salute, cioè i diritti della persona mezzo secolo dopo lo Statuto dei lavoratori, un pilastro normativo in materia. Quel diritto fondamentale dell’individuo sancito dalla Costituzione e proprio della persona, considerato – così ha stabilito la Corte costituzionale – “come posizione soggettiva autonoma”. Fratelli d’Italia, dunque, dentro gli spazi della Costituzione.
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