
( foto Ansa)
La nuova e sconcertante postura assunta da Trump sulla questione della guerra in Ucraina, l’attacco non troppo velato del suo vice Vance ai valori dell’Europa e la costante minaccia di dazi sulle importazioni negli Usa, a parere della maggioranza degli opinionisti del Vecchio Continente, imporrebbe una reazione immediata da parte dell’Unione Europea. Tuttavia, per valutarne la possibilità e soprattutto l’efficacia occorre tenere presenti alcuni aspetti che caratterizzano la nostra istituzione europea.
Il primo aspetto è che, a differenza degli Usa, l’Unione europea non è una Federazione di Stati ma una Unione di Stati. Per comprendere la sostanziale differenza tra le due istituzioni non bisogna scomodare i costituzionalisti ma è sufficiente paragonare la consistenza dei bilanci a disposizione dei due governi. Negli Usa il bilancio federale rappresenta il 25% del Pil degli Stati Uniti d’America; l’attuale bilancio pluriennale a disposizione dell’Unione Europea non raggiunge l’1,5% del Pil aggregato dei 27 paesi membri. In pratica il secondo è proporzionalmente 16 volte più piccolo di quello statunitense e dunque la sua capacità di spinta delle proprie politiche è molto più bassa.
Il secondo aspetto riguarda la forma di governo che caratterizza le due istituzioni, con una concentrazione, negli Usa, del potere in mano al Presidente. Diversa è la situazione nell’Unione europea dove il potere è distribuito tra il Consiglio europeo (dove le decisioni chiave vanno assunte all’unanimità), il Parlamento europeo e la Commissione.
La conclusione è che sarebbe ingenuo addossare la responsabilità di una mancata reazione tempestiva ed efficace all’Unione europea. Bisogna invece chiamare in responsabilità i paesi dell’Unione europea e dunque i loro governi e i parlamenti. Sono loro che devono rapidamente comprendere che solo riconoscendo nell’Unione europea lo strumento unico per reagire efficacemente agli accadimenti in corso sarà possibile invertire quella tendenza che sembra condannare i nostri paesi al decadimento economico (perdita di competitività) e sociale (sgretolamento del sistema di welfare e spopolamento). La via da seguire è quella di riconoscere l’importanza dei beni comuni europei a difesa dei quali l’Unione sarebbe chiamata ad intervenire, senza cambiare le regole del gioco dell’attuale trattato Ue ma contando sul consenso degli stati membri senza se e senza ma.
Un primo esempio è la tutela del bene comune della sicurezza e difesa, messa ora in dubbio dallo smarcamento degli Usa dalla questione ucraina (che assomiglia molto alla fuga da Kabul…) con l’Europa chiamata a difendere Kiev da sola. Un tema che mette d’accordo numerosi paesi europei, anche quelli tradizionalmente sfavorevoli a fare ricorso a maggiori mezzi finanziari europei (i cosiddetti paesi frugali, in questo caso direttamente esposti alle minacce russe, come le repubbliche baltiche e la Finlandia). Gli strumenti per una reazione rapida ci sono e qui ne enumero due: il definitivo sequestro degli oltre 200 miliardi delle banche russe bloccati in Europa e per ora solo congelati e il loro utilizzo per sostenere l’Ucraina, e l’esclusione dal conteggio per il patto di stabilità e crescita delle spese realizzate dagli stati membri in tema di difesa, magari per investimenti congiunti, evitando così la frammentarietà che oggi caratterizza gli acquisti nel settore. Nei giorni scorsi, inoltre, è stato adottato il 16° pacchetto di sanzioni contro la Russia, che ha determinato l’espulsione di 13 banche russe dal sistema interbancario.
Un secondo esempio è il bene comune della sovranità digitale e tecnologica minacciato dalla Cina (che potrebbe non fornici più le materie prime e i microprocessori) e dagli Stati Unità (che potrebbero colpire con i dazi i nostri prodotti). Anche qui alcune reazioni immediate sono possibili. In primo luogo la ratifica da parte degli stati membri dell’accordo di libero scambio con i paesi latino americani, detto “accordo Mercosur”, recentemente firmato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che ci permetterebbe di poter contare sugli enormi giacimenti di litio (materia prima di base per le batterie elettriche e nelle telecomunicazioni) presenti in quei paesi e osteggiato da alcuni stati europei, compresa l’Italia, per presunti rischi sul nostro commercio agricolo.
Inoltre, in tema di dazi bisogna tener presente che la minaccia brandita da Trump potrebbe non essere poi così rilevante per noi europei. Le esportazioni di prodotti dell’area euro negli Stati Uniti rappresentano poco più dell’1,5% del Pil dei paesi membri, mentre le esportazioni verso la Cina il doppio (rilevazione Fmi 2023). Certo, relativamente al nostro paese i dati sono a parti invertite, ma è proprio la soluzione in chiave europea che dovrebbe permetterci poi nel medio periodo di ribilanciare i nostri commerci aprendoci ulteriormente ad altri mercati, come quelli che ci dischiuderebbe il citato trattato Mercosur.
I paesi europei hanno già dimostrato una volta di essere capaci, nei momenti dell’emergenza (la pandemia di Covid) di fornire all’Unione europea gli adeguati strumenti per una risposta efficace: il NEXTGenerationEU finanziato con gli eurobond sino allora considerati tabù. Ora bisogna fare altrettanto e -lo ripete da giorni Mario Draghi - subito , difendendo ad oltranza l’Ucraina, affermando la nostra indipendenza tecnologica, aprendoci a nuovi mercati e sviluppando ulteriormente le relazioni intraeuropee. L’appello è ai paesi membri, Germania compresa, che esce della recentissima tornata elettorale con la possibilità di creare un governo che metta in un angolo l’estrema destra, l’estrema sinistra e i verdi. La premesse per un’Europa più forte.
© RIPRODUZIONE RISERVATA