Achille Funi. Una chiara sintesi di antico e moderno

L’analisi di uno degli artisti più eclettici di tutto il panorama novecentesco. Legato al territorio, morì ad Appiano Gentile nel 1972

Scrivere di Achille Funi è un’azione audace per la poliedricità del personaggio: grafico, pittore, scenografo, scultore, architetto; un insolito artista che ha ricercato il futuro dell’arte con i piedi nella storia, più antica, dell’arte italiana. Ed Elena Pontiggia traccia nel libro titolato: “Achille Funi- Un maestro a Brera” (edito da 24 ORE Cultura, Milano), lo spericolato e ardito percorso della vita artistica di Funi, parte considerevole - della sua sconfinata produzione - fu esposta in una mostra storica tenutasi a Ferrara tra l’ottobre ’23 e il febbraio ‘24.

Il clima culturale ferrarese, darà un imprinting al nostro artista tale da suggerire a Giorgio De Chirico, nella monografia del ’40 su Funi, che la “visionarietà veneta” lasciò in lui «Quel tanto di pazzia che è diffuso a Ferrara (e che) fa sì che i poeti, gli scienziati, i pittori di quella città s’immergano con maggior ardore e più profondamente nel loro sogno…».

Margherita Sarfatti nella sua prima monografia dell’artista, ricorda come contributo alla formazione di Funi furono anche la lettura dei grandi libri: «La Bibbia è stata la mia prima lettura. L’ho letta a nove anni: non per me; la leggevo a mia nonna che non sapeva leggere. Gliel’ ho letta cinque volte. Poi per me, ho letto i poemi antichi: l’Odissea, l’Iliade».

Nel 1906 si trasferisce con tutta la famiglia a Milano, in Via Gustavo Modena al civico 30, poi in Viale dei Mille al civico 1. In Accademia- ci ricorda la Pontiggia- si lega a Carrà del quale ricorda la sua “timidezza” e, conosce Carpi, Frisia, Chiattone, Erba e, più tardi Sant’Elia e Salietti. E intorno al 1907 stringe amicizia con Umberto Boccioni, che descrive un’opera “Aratura”, presentata al concorso per i Premi Brera (Luglio 1910), opera poi andata perduta. Va ricordato che dal 1908 al 1910 Funi seguirà i corsi di pittura con Cesare Tallone, che definirà sempre il suo maggiore maestro.

Nel 1909 esce il “Manifesto della pittura futurista”. Funi non ne fa parte, pur essendo in buoni rapporti con Boccioni e Carrà. Raffaele Corrieri raccoglie il suo parere che poi divulga. A Funi «non piacevano i manifesti in genere, né le tessere né i regolamenti», ma in particolare, per il manifesto futurista, Funi non era stato invitato a sottoscriverlo. Tuttavia già nel 1911 realizza alcuni disegni dominati dalla scomposizione futuristica. Ma l’attività pittorica di Funi non ebbe un procedere regolare.

Nel comasco

Funi, nel comasco, definisce la poetica del “Novecento Italiano”. Il 1920 è un anno cruciale per lui «grazie all’intervento mecenatesco di due imprenditori, Piero Preda e Amleto Selvatico, amici di Margherita Sarfatti. È l’anno in cui firma il manifesto “Contro tutti i ritorni in pittura” che considererà sempre l’atto di nascita del Novecento Italiano. È l’anno in cui tiene la prima mostra personale alla Galleria Arte e in cui, soprattutto, dipinge “Autoritratto con brocca blu e “Margherita con brocca di coccio”, dove supera futurismo e metafisica e partecipa pienamente al Ritorno all’ordine».

In quel periodo Sarfatti convinse l’industriale Piero Preda di assistere, per qualche mese, Martini e Funi che trovarono rifugio a Rovenna, in casa Preda, sita in un villaggio sopra Cernobbio, sulle falde del monte Bisbino. In questa oasi di tranquillità i due artisti lavorarono duramente. Giunti a Rovenna i due artisti, che già accomunati da una forte passione per l’arte, scrivono una missiva entusiasta, al loro benefattore Preda e lo ringraziano per aver «dato alle nostre anime la possibilità di ispirazione, al cervello la facoltà di creare». Funi dipinge “Dalida e Sansone” e “Venere e satiro” due opere espressione del Ritorno all’ordine «si staccano però anche dal simbolismo, preannunciando già quella naturalezza che sarà uno dei cardini della poetica del Novecento Italiano». Martini sposa la fidanzata Brigida di Vado Ligure per poi tornare a Rovenna.

È il 1920 e, a metà luglio Funi e Martini partecipano alla mostra “Artisti dissidenti di Cà Pesaro”, alla Galleria Geri- Boralevi di Venezia; e il mese dopo i due artisti partecipano invece all’ “Esposizione nazionale d’arte” di Vicenza, nelle sale “Nuove Tendenze”. La situazione socio-economica si fa tempestosa, vengono a mancare i sussidi di Preda e Selvatico e gli artisti debbono tornare a Milano.

Il 26 Ottobre di quell’anno Funi inaugura alla “Galleria Arte” la sua prima mostra personale, presentata da Margherita Sarfatti che scrive: «Dopo l’orgia … spinta sino alla dissoluzione e frantumazione estrema, bisogna ricreare la sintesi. Bisogna inoltre ispirarsi nuovamente ai maestri del passato, senza però tornare all’accademismo, allo storicismo all’eclettismo». È pur vero che Funi continua a partecipare alle mostre futuriste, ma il suo miglior tempo è dedicato a realizzare dipinti che sono in continuazione con i dettati del “Novecento Italiano”: è di questo periodo l’“Autoritratto con brocca blu”. In questa fase Funi dipinge, principalmente, figure accostate ad anfore, frutti, tazze.

La scuola di Funi

«L’artista però non si accontenta del riconoscimenti e nemmeno delle tante pareti che ha dipinto, ma sogna di insegnare in Accademia quell’antica tecnica, anzi di fondare una specifica cattedra di affresco, che in Italia non esiste». È conscio che la pittura murale necessita di una padronanza professionale che gli usuali corsi di pittura non forniscono. Sarà uno dei pochi a dedicarsi a quell’insegnamento. Quando Funi riesce ad ottenere un incarico a Brera nell’Aprile del ’40- per chiara fama- senza concorso. Ma l’entrata in guerra – il 28 giugno- dell’Italia frena le attività didattiche tanto da suggerirgli di redigere, con Carpi, un documento in cui propone due soluzioni per razionalizzare le scuole di pittura: fare un’unica scuola di pittura unendo la scuola da cavalletto con quella di affresco, oppure fare una scuola totale, ovvero una scuola dove, con libera scelta, gli allievi aderiscono - come avviene in altre Accademie all’estero – alla pittura o all’affresco.

«Quello che interessa a Funi, in entrambi i casi, è valorizzare la personalità degli allievi, in modo tale che gli insegnanti non siano burocraticamente uguali per tutti, ma sviluppino il talento di ciascuno». E sarà questa la funzione e, per cui verrà apprezzata e ricordata la sua attività didattica. Alla Scuola di Funi hanno studiato artisti con diverse preparazioni e intenti, la sua scuola era frequentata da studenti che seguiranno indirizzi diversi dai suoi.

Infatti Achille Funi è considerato uno dei più grandi maestri dell’Accademia di Brera del Novecento- ci ricorda la Pontiggia- non per la sua statura di artista, «ma (perchè) nessuno ha avuto più tanti allievi di talento come lui. Ennio Morlotti, Valerio Adami, Giuseppe Ajmone, Cesare Peverelli, Gianni Dova, Roberto Crippa, Gianni Colombo, Davide Boriani, Grazia Varisco, Umberto Mariani, Attilio Forgioli, per citarne alcuni, hanno tutti studiato all’Accademia con Funi, e già la diversità delle loro ricerche conferma l’efficacia del suo insegnamento. Perché un maestro non è chi forma epigoni di se stesso, ma chi aiuta un giovane a diventare se stesso».

Alcuni allievi di Funi diventano esponenti della pop art o dell’arte programmata, «altri, come gli informali e gli spazialisti, dissolvono invece la forma, ma anche loro – al di là dell’autonoma evoluzione degli artisti, che raramente restano legati per tutta la vita agli insegnamenti dell’Accademia- perseguono una pittura non realista, che supera la visione immediata per indagare la materia, il segno, lo spazio». Nicoletta Colombo e Serena Redaelli ci ricordano che Funi «sofferente da alcuni anni di problemi circolatori, si spegne alla clinica “Le Betulle” di Appiano Gentile presso Como, la sera del 26 Luglio 1972». Achille Funi morì ad Appiano Gentile nel 1972.

© RIPRODUZIONE RISERVATA