Addio a Quincy Jones. Marchio di qualità della musica mondiale

È morto all’età di 91 anni nella sua casa di Bel Air uno dei più grandi musicisti e produttori di sempre. Collaborò con star come Frank Sinatra e Michael Jackson

Nel 1993, quando non aveva ancora compiuto i 60 anni, venne insignito del “Grammy legend award”: di grammofonini, sulla mensola del caminetto, ne aveva altri 28. Li ha ricevuti per i suoi arrangiamenti e produzioni di brani di Ray Charles, George Benson, Lena Horne e Michael Jackson senza contare quel “who’s who” della musica che è “We are the world”.

Tra i suoi “clienti” si annoverano anche Frank Sinatra, Count Basie, Tony Bennett, Ella Fitzgerald, Diana Ross e innumerevoli altri. Quincy Jones, alla fine, non era solo un nome: era un marchio di qualità, era una certezza per i musicisti, ma anche per i discografici che sapevano che avrebbe sfornato un ennesimo successo.

Piccolo genio

Era stato Ray Charles a ispirarlo: si erano incontrati giovanissimi e Quincy Delight Jones Jr., trombettista in erba, era rimasto impressionato dalla tenacia di quel cantante e pianista che non doveva superare solo le barriere del razzismo (spessissimo si esibivano in locali che non avrebbero potuto accettarli come clienti), ma anche l’handicap della cecità.

La forza e l’abnegazione di quello che divenne il suo primo datore di lavoro celebre condizionarono l’etica di quel piccolo genio della musica. In principio fu il jazz, suonando nell’orchestra del grande vibrafonista Lionel Hampton per poi passare alla corte dei fratelli Jimmy e Tommy Dorsey. Fu nel loro programma televisivo che si ritrovò ad accompagnare un giovanotto bianco come il latte, ma dal cuore blues, mentre interpretava per la prima volta davanti alle telecamere “Heartbreak hotel”: accompagnando Elvis Presley, Quincy capì che la musica non aveva confini e che il colore della pelle era un problema solo per i razzisti. Dopo essersi irrobustito le ossa con Dizzy Gillespie (sì: la sua carriera è un’enciclopedia di tutti i più grandi), fondò una sua orchestra, considerata tra le migliori negli Usa, una formazione di tale successo che la Mercury lo assunse direttamente come vicepresidente all’inizio degli anni Sessanta (il primo afroamericano a raggiungere una posizione così importante).

Ha scritto colonne sonore per il cinema e per la televisione, ha realizzato arrangiamenti per Shirley Horn, Peggy Lee, Nana Mouskouri, Sarah Vaughan, Dinah Washington e Lesley Gore (oltre alle altre star già citate), ma l’incontro più importante avvenne quando era già un big assoluto. Michael Jackson, alla fine degli anni Settanta, non voleva più essere il bimbo tenero che spezzava i cuori delle mamme e delle nonne cantando con i fratelli. Ci ha pensato Quincy a trasformarlo nel “king of pop” grazie al tris milionario di “Off the wall”, “Thriller” e “Bad”. La loro separazione non fu indolore: il genio non aveva un carattere troppo accomodante.

Quando venne chiamato a trasformare l’impresa di “Usa for Africa” in un successo planetario, fece appendere un cartello in sala di incisione: “lasciate i vostri ego fuori dalla porta”, e questo valeva anche per Jacko, Lionel Richie, Stevie Wonder, Dylan, Springsteen e tutti gli altri pezzi da Novanta coinvolti. Se c’era un ego più grande, infatti, era proprio quello di Quincy Jones e, forse, ne aveva tutto il diritto. Se n’è andato ieri, a 91 anni, lasciandosi alle spalle un’eredità artistica difficilmente eguagliabile.

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