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Venerdì 03 Gennaio 2025
Ci hanno tolto anche Gta? Pare di sì
In uscita nel 2025 l’ultima versione del celebre videogame con delle modifiche per “l’inclusività”. Rendere politicamente corretto il gioco significa minarne l’anima e annichilire quello che è sempre stato
C’era un tempo in cui si poteva uccidere. Sembra assurdo? Eppure è così.
C’era un tempo in cui potevamo scorrazzare con una moto lungo la scogliera di Miami baciati dal neon rosa che luccicava sulla visiera del nostro casco. Potevamo immergersi nella salsedine del deserto di Tierra Robada solo con una canottiera bianca, una motosega e un Caddy. Potevamo ballare al Club Malibù e svaligiare una gioielleria nel Commerce. Ci era concesso, reduci dai nostri pomeriggi pre-adolescenziali, di trasgredire. La trasgressione ha caratterizzato ogni generazione: una ribellione che a volte è fatta di musica, vizi, droghe ma che per noi, nati nella metà degli anni 90’, è iniziata con un videogioco nel quale, origliavamo tra i banchi delle elementari, si poteva “fare tutto quello che si voleva.”
Un gioco da record
Correva l’anno 2002 quando Grand Theft Auto: Vice City uscì per Playstation 2 scalando le classifiche dei videogiochi più venduti di sempre. La storia di Tommy Vercetti, soprannominato “il macellaio di Harwood”, che dopo quindici anni di prigione torna a servire la famiglia Forelli la quale, scoprirà poi, essere l’artefice della sua reclusione. L’ascesa criminale, la spocchia del tough guy, e quell’ironica italianità sopranesca.
GTA sintetizzava tutti i più importanti gangster movie del cinema americano nell’estetica pop degli anni ‘80: Scarface, Donnie Brasco, Carlito’s Way (il personaggio di Ken Rosenber, citazione dell’avvocato David Kleinfeld interpretato da Sean Penn proprio nel film di Brian De Palma) attingendo dagli svincoli topograficamente immortalati dalla serie Miami Vice.
La violenza deresponsabilizzata a suon della voce sensuale di Laura Branigan: “I, I live among the creatures of the night” (Self Control). Un gioco nel quale si poteva far tutto, fuorché nuotare. Poco importava, perché le luci del tramonto rosa appassivano sul cofano mentre sfrecciavamo tra le strade di Little Haiti. Creature della notte come i The Warriors del film di Walter Hill.
E poi ecco che nel 2004 arrivò San Andreas: anni ‘90, Los Santos. Un’altra storia: emarginata, hip-hop e ghettizzata nelle periferie tra California e Nevada. Deserto e proiettili. La circonferenza del gioco è più dilatata, sia a livello fisico che di trama. Non più una singola ascesa verticale, ma una continua battaglia tra gang quasi a richiamare la rivalità tra West e East Coast presente a quei tempi nel panorama musicale (I Public Enemy, Kool G Rap, Masta Ace sono solo alcuni tra gli artisti che potevamo ascoltare dopo aver cambiato look dal nostro parrucchiere di fiducia).
E infine la consacrazione finale del gioco: GTA V. Tre personaggi provenienti da contesti sociali diversi di Los Angeles: Michael vive a Rockford Hills (reinterpretazione di Beverly Hills), Trevor a Blaine County, un deserto colmo di roulotte e reietti alcolisti e violenti e infine Franklin, nato a South Los Santos, una zona depressa ispirata ai quartieri meridionali di LA. Periferia, deserto e lusso sfrenato. Un gioco che era riassunto, consacrazione e infine innovazione rispetto a tutto ciò che ci aveva già mostrato.
Antecedente a Black Mirror: Bandersnatch (D. Slade, 2018) GTA ci aveva dato la possibilità di scegliere il finale della storia a seconda delle nostre simpatie. L’espressione massima del libero arbitrio insieme al concetto stesso di Open World.
GTA V ci poneva sempre di fronte a una scelta: che oggetto vuoi usare per torturare un prigioniero? Vuoi tradire il tuo partner? Senza alcuno spirito di coscienza etica si sprigionava la nostra libertà virtuale. E poi, alla fine, si spegneva la console. E si tornava al mondo reale.
Diseducativo?
Chi sostiene che GTA avrebbe inzigato alla violenza rasenta la giura popolare di chi incolpa la trap, il rap, o in genere qualsiasi atteggiamento che non contempli la preghiera come diseducativo modello pedagogico.
È l’elettorato cristiano che si dibatte contro Marilyn Manson nel documentario di Bowling for Columbine (Michael Moore, 2002). Ecco, GTA sta alla violenza come la musica di Manson alle stragi scolastiche.
Anzi, queste forme d’arte così esplicite sono proprio l’antidoto alla degenerazione degli impulsi.
Interagire artisticamente con la violenza è l’unico modo per esorcizzarla.
E invece sembra che ora, secondo le indiscrezioni rilasciate dal giornalista Jason Schreier di Bloomberg, Rockstar starebbe lavorando per eliminare violenze e battute offensive verso le minoranze e comunità transgender.
Woke culture killed the Rockstar verrebbe da cantare, parafrasando l’iconico pezzo dei The Buggles: Video killed the Radio Star.
L’esorcismo, ora, avviene al contrario. La forma di purificazione ci fa desiderare di realizzare ciò che nella fantasia ci è precluso. La colpa crea mostri. L’ironia e la presa di distanza che ne consegue, invece, li allontana. Rendere inclusivo GTA significa minare l’anima del gioco e annichilire quello che era, per antonomasia, l’ultimo baluardo del libero arbitrio.
Perché la pasta integrale si mastica nei periodi a dieta, non per tutta la vita. E invece la dieta di cinismo si è prolungata a status quo. GTA, come i film di Tarantino, è l’opera d’arte autoriale che riesce a inserirsi nel mainstream senza perdere la sua qualità.
GTA era un gioco che sapeva riunire a livello di scenografia, sceneggiatura, regia tutti i reparti della settima arte. Un videogame nel quale si poteva sfogare la rabbia e poi andare a cena tranquilli, come se nulla fosse. Perché in fondo non avevamo fatto del male a nessuno: era solo un gioco. Ora anche quel tipo di violenza è stata censurata, ridicolizzata, depurata dalla sua stessa perversione.
Forse ora gli studenti minacciano i professori perché, tornati a casa, non hanno la possibilità di investire quel personaggio che glieli ricorda. E mentre ora sappiamo che se dovessimo commettere un femminicidio avremmo subito cinque stelle e non due forse ricorderemo di quando, da ragazzi, non ci ponevamo il problema. Perché con quella katana facevamo fuori tutti: donne e uomini senza distinzione.
E quella, che ci crediate o no, eh sì che era una misantropa e autentica genuina forma di uguaglianza.
E che succederà ora? Ci saranno bande arcobaleno? I ghetti saranno sfumati, variopinti? Un tempo, viene da pensare, si scrivevano belle storie perché non si perdeva tempo a pensare a chi si sarebbe potuto offendere.
Vice City era una bella storia perché se ne fregava e, come disse Sarah Hasan, una poetessa palestinese, “il menefreghismo è una forma di superpotere”.
Inoltre c’è da dire una cosa. Noi abbiamo giocato a GTA senza mai raccontarlo agli adulti. Era troppo violento, troppo scorretto, troppo anarchico. Andava, insomma, contro tutto il sistema borghese e provinciale che avevamo accumulato. Lo nascondevamo, come certi adolescenti degli anni ‘60 facevano con i dischi.
GTA VI sarà sicuramente un cult, ma temo che lo sarà solo per l’attesa che l’ha accompagnato. Un gioco che entrerà nella storia ma che, se dovesse piegarsi ai piagnistei woke, non riuscirà a scriverla.
Non ci sono più i Tommy Vercetti, i CJ o i Travor. E anche noi, d’ora in poi, avremo il diritto di essere malinconici, ricordando di quando provavamo a raggiungere i fosfeni al led sparsi nel cielo lanciandoci su una rampa con il nostro Freeway che guidavamo a gomiti aperti.
Fortunatamente il nuovo codice della strada ci dà la possibilità di guadagnare cinque stelle non appena saliti in macchina. Così potremmo dire, pure se non abbiamo fatto nulla: “Sembra di essere in GTA”.
E poi via col trucco; scritto rigorosamente a penna sopra un foglietto di carta… nascosto nella custodia del nostro gioco preferito.
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