“Correzione”. Le vette abissali di Bernhard

L’analisi del romanzo dello scrittore austriaco che esprime al massimo il suo universo claustrofobico . Il tema della morte si unisce al valore laico della vita

I grandi narratori nascono grandi, ma a volte la loro grandezza tende a stemperarsi e offuscarsi, fino a scivolare nella maniera: straordinaria, raffinatissima, ma pur sempre maniera (è il caso di un grandissimo come Thomas Mann e dell’ultima fase della sua produzione, per citare un esempio tra i più significativi).

Thomas Bernhard rappresenta invece il caso di un grande narratore che nasce grande – anzi grandissimo, col romanzo d’esordio “Gelo” e lo stupefacente personaggio del pittore Strauch – e rimane sempre grande, al punto che la sua opera può essere considerata come un insieme di vette, dove ogni vetta è una manifestazione estrema e inarrivabile di pura genialità, nonché un affondo nel ventre molle dell’esistenza, costantemente percepita e vissuta come qualcosa di innaturale e perfino morboso.

L’arte dell’esagerazione

Non è quindi questione di classifiche o graduatorie, perché Bernhard è sempre Bernhard, ma si possono forse individuare due titoli che esprimono alla massima potenza il suo universo claustrofobico e concentrazionario: due vette che sono più vette delle altre, se mai possibile.

La prima vetta (anche se in ordine cronologico sarebbe la seconda, ma costituisce davvero l’approdo e l’apice di tutta la sua produzione) è rappresentata dal romanzo “Estinzione”, pubblicato in lingua originale nel 1986 e proposto in versione italiana da Adelphi un decennio dopo. È il suo ultimo romanzo, che insieme al testo teatrale “Piazza degli eroi” si profila come il suo testamento umano e spirituale ed esprime la sua irrefutabile condanna del sordido e abietto consorzio umano, col principio stilistico dell’“arte dell’esagerazione” elevato al rango di uno sproloquio definitivo che dice tutta la tragicomica inutilità di ogni tentativo di comprendere il mondo.

La seconda vetta (la prima, in ordine cronologico) è invece rappresentata dal romanzo “Correzione”, pubblicato in lingua originale nel 1975, proposto a suo tempo in versione italiana da Einaudi e ora ripreso da Adelphi. George Steiner lo ha definito con tutte le ragioni uno dei romanzi più significativi del Novecento, perché “Correzione” è davvero una vetta dalla quale è possibile gettare lo sguardo in profondità scabrose e abissali, che forse solo Bernhard è riuscito a descrivere con una potenza poetica costantemente tenuta sotto controllo, magistralmente orchestrata, sorretta da un ferreo rigore matematico e da precise scansioni ritmiche, come in una partitura musicale.

La “correzione” (che si può tuttavia intendere anche come “autocorrezione”) alla quale il titolo fa riferimento è nientemeno che il suicidio, inteso appunto come la “correzione” che l’essere umano può operare quando si accorge che la vita ha raggiunto un grado di astrazione e falsificazione ormai irrimediabile e irreversibile.

Correggersi ed estinguersi

Lo spunto è fornito con ogni evidenza dalla “meditatio mortis” dell’amatissimo Montaigne (in molte pagine si avverte anche la presenza di Pascal, altro autore di fondamentale importanza per Bernhard), ma è portato – almeno potenzialmente, perché l’arte dell’esagerazione è quasi sempre una voluta forzatura – fino alle estreme conseguenze.

Il romanzo, infatti, è la storia di un suicidio che diventa un duplice suicidio e infine un suicidio di massa, e poco importa se il termine “suicidio” vada interpretato in senso reale o metaforico: si suicida Roithamer, docente di scienze naturali a Cambridge (la sua figura è ricalcata su quella di Ludwig Wittgenstein, che aveva progettato una casa per la sorella a Vienna), un “puro folle” che in momento di assoluta lucidità o di assoluta pazzia – che per Bernhard coincidono – ha deciso di costruire, nel mezzo di un bosco, un cono adibito ad abitazione per la sorella. Si suicida anche la sorella, perché muore di una morte naturale che è causata dalla costruzione del cono, quindi diventa un lasciarsi morire e infine un suicidio.

Come se non bastasse, si “correggono” suicidandosi anche alcuni personaggi di contorno, uno zio, un cugino e altri uomini che «senza esitare, da un momento all’altro», mettono in atto «la vera correzione», l’unica possibile, che estingue l’esistenza stessa nel tentativo di emendarla. È anche per questo motivo che c’è una forte contiguità tematica tra “Correzione” ed “Estinzione”, che possono essere letti come un solo romanzo diviso in due parti. Quanto alla causa remota dell’inevitabile correzione/estinzione, è accennata in una sibillina affermazione di Roithamer che costituisce il punto di snodo e lo svelamento dell’intera vicenda. Come ha fatto spesso anche in altre opere narrative, Bernhard l’ha posta in esergo al romanzo: «Perché un corpo sia stabile è necessario che abbia almeno tre punti d’appoggio che non si trovino in linea».

Oltre il nichilismo

Sarebbe tuttavia un gravissimo errore leggere “Correzione” come un romanzo sul suicidio, peggio ancora come un’esaltazione della morte volontaria, perché è vero l’esatto contrario. Come sempre in Bernhard, ma in “Correzione” più che altrove (con la sola eccezione del romanzo autobiografico “Il respiro”), l’“arte dell’esagerazione” agisce infatti come una specie di reagente chimico che trasforma la costante presenza della morte in un fortissimo desiderio di vita.

Non a caso, proprio parlando di “Correzione”, uno dei suoi primi e più attenti lettori italiani, il compianto Italo Alighiero Chiusano, che si spese tantissimo per farlo tradurre e conoscere anche a sud delle Alpi, ha giustamente osservato che in Bernhard tutto è all’apparenza «tetraggine color seppia, pessimismo dal basso continuo monotono e infernale, tristezza e squallore di personaggi sordidi e sconfitti, paesaggi deserti e senza sorriso». Si ha quindi l’impressione che lo stesso Bernhard ci voglia «degradare a complici del suo nichilismo immobilista, o addirittura a vittime inorridite del suo sadismo al rallentatore, e invece ci trova alacri collaboratori a un’operazione vitale».

Esattamente mezzo secolo dopo la pubblicazione in lingua originale di questo incredibile romanzo, una simile chiave interpretativa rimane validissima, perché in effetti pochi autori come il pessimista e nichilista Bernhard (viene da pensare ai lucidissimi sproloqui dell’ultimo Céline) sono riusciti a trasmettere per contrasto l’inestimabile valore laico della vita, nonostante tutto. Come dicono le fulminanti righe finali, prese dagli appunti di Roithamer per la costruzione del cono: «Possiamo esistere al massimo livello di intensità finché siamo. La fine non è un processo».

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