«Dai banchi di scuola a noi: i miei versi sono una fiaba»

L’intervista a Vivian Lamarque, già Premio strega poesia nel 2023 con “L’amore da vecchia” (Mondadori). Sabato alle 18 sarà al Cinema di Bellano, in dialogo con Armando Besio, per un approfondimento sulla sua opera

Vincitrice del Premio Strega Poesia 2023 con “L’amore da vecchia” (Lo Specchio Mondadori), Vivian Lamarque è voce autorevole e figura centrale della poesia italiana contemporanea, con versi vivaci, freschissimi, spiazzanti, accompagnati da un’ironia tagliente che sa essere feroce e incisiva. Ne parliamo con l’autrice, anticipando il dialogo in pubblico previsto sabato 26 aprile, ore 18, alla rassegna Il bello dell’Orrido presso il Cinema di Bellano (via Roma, 3).

Vivianne, la tua poesia si caratterizza, da sempre, per una lingua semplice, chiara, a tratti persino fiabesca, come in questo esempio, “Guerra”: “Oh di nuovo. / Un paese in dolore / tanti paesi in dolore / tutti sono in dolore. / Solo i fiori oggi sono in fiore” (“L’amore da vecchia”). Si possono dire delle verità, anche terribili, attraverso una lingua leggera?

Sì, leggera e anche misurata. Ricordo come mi colpirono, sui banchi di scuola, cent’anni fa, le manzoniane tre parole: “La sventurata rispose”.

Giovanni Raboni definì la tua poesia di “una semplicità quasi feroce”, come questi versi in “Poesie dando del Lei”: «La mia superficie è felice / ma venga, venga a vedere / sotto la vernice». È possibile essere ironici in poesia?

Non solo ironici, persino, appunto “feroci”. Ho usato una sola volta questo aggettivo, nella poesia di mezzo secolo fa intitolata “Cucchiaini”. Descrivevo i solitari pasti d’infanzia e l’aggettivo che si scrisse da solo, per di più riferito ai cucchiaini, mi sorprese per la sua potenza, lo lasciai.

La sua attività poetica, fin dagli anni Novanta, è accompagnata da libri per bambini e per ragazzi, come “La Bambina che mangiava i Lupi”, “Storielle al contrario”, “Storia con mare cielo e paura” (vincitore del Premio Inge Feltrinelli 2025). Qual è il tuo rapporto con la letteratura per l’infanzia?

Ho sempre letto molto, ma nell’infanzia più che mai. Non chissà cosa, semplicemente fiabe, e spesso più volte sempre le stesse finché non me ne regalavano di nuove. Nell’indice mettevo crocette alle preferite. Tutte queste fiabe inghiottite voracemente come dal lupo Cappuccetto Rosso, a un certo punto hanno cominciato a riemergere, a uscirmi dal pennino, con parole mie però.

Nel libro “La Gentilèssa” del 2009 ha fatto ricorso alla lingua dialettale, scrivendo testi memorabili come “Gajna malada” o “Famm fà un gir in bicicletta”. Come è stato scrivere in dialetto? Lo farai ancora?

Nessun mio parente era milanese, ma era Milano stessa, negli anni Cinquanta, a parlare quella lingua ovunque, nei cortili, nei negozi, per strada, sui tram. Nessun “sintomo” in me a dichiarare il contagio, eppure quel milanese doveva essermi entrato ben dentro se decenni dopo, un po’ come era successo con le fiabe, a un certo punto tra il ’72 e il ‘75 dal profondo risalì in superficie, sotto forma di una quarantina di poesie. Nel 2009 Maurizio Cucchi decise di pubblicarle ne “La Collana” Ed. Stampa 2009, con il titolo “La Gentilèssa. Poi quella voce si zittì, forse non mi parlerà mai più.

“Il Signore d’oro” e “Il signore degli spaventati”, dedicati al signor B.M, aprono la tua poesia al rapporto tra analista e paziente. Qual è la relazione tra la tua opera e la psicoanalisi?

Molti scrittori e artisti in genere evitano di entrare in analisi per timore di perdere la creatività. Li rassicuro, durante l’analisi junghiana ho pubblicato tre libri di poesie su quell’esperienza che tanto mi ha aiutata. A maggio verranno raccolte in un unico volume, con anche una sezione di nuove. Titolo “E intanto la vita? Poesie per Lei, Dottore”.

“Scrivere è riscrivere...”. È vero che le tue poesie sono continuamente accompagnate da correzioni con la matita, anche dopo avere pubblicato?

Sì, fenomeno preoccupante e ultimamente in aumento. Durante le letture pubbliche c’è sempre qualche parola che non mi soddisfa più, allora la tolgo o la sostituisco.

“Un bottone”, “il termometro”, la “flebo”, persino “l’oro dell’urina” entrano in una bellissima poesia di “Madre d’inverno” (“Per chi ha vegliato una notte una madre”). Esistono oggetti “impoetici”? O è compito del poeta mettere la vita in versi con quanto entra nella sua esperienza?

E altre ancora: millesimi condominiali, “minestra da mescolare se no attacca”, “non la smette più stasera di lavare i bicchieri”, nomi di medicinali come algasiv, oxivent, lanoxin, tachidol (mi aveva colpito una poesia simile di Patrizia Cavalli).

Come è avvenuto il tuo incontro con la poesia? C’è stato un episodio in particolare?

A dieci anni. Avevo appena scoperto di essere stata adottata. Non ebbi il coraggio di raccontare questa scoperta alla mamma, né ad altri: “si cuciva le labbra / faceva il nodo”. Ma chiusa la bocca mi si spalancò la scrittura.

Chi sono stati i tuoi maestri più importanti? Vuoi condividere un ricordo?

Tra gli antichi Saffo, i lirici greci. Poi molto Emily Dickinson. Poi la linea Saba, Penna, Caproni. Tra i contemporanei soprattutto Raboni (che mi aveva scoperta) e Giudici.

“Invece sì invece forse sì / forse le poesie forse lo cambieranno / un poco il mondo...”. Comincia così “Cambiare il mondo”, uno splendido testo contenuto in “Madre d’inverno”. Quale ruolo può avere la poesia nell’epoca in cui stiamo vivendo?

In questa poesia ho aggiunto tanti “forse”. Ora in tutto ce ne sono cinque. Rispondo anche a questa domanda con dei forse. In apparenza forse nessun ruolo. Ma come Foscolo credo nelle illusioni. La poesia che ti è piaciuta terminava con i versi “sì me lo sento che forse dalle poesie / forse verrà un poco di cambiamento / ma come un nevicare lento lento lento.”

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