Gianni Mura: lo sport d’autore, tra calcio e ciclismo

Il prossimo 21 marzo ricorrono i cinque anni dalla scomparsa del grande giornalista sportivo. «È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati».

Ma quanto manca Gianni Mura al calcio, al giornalismo, alla letteratura? Risposta, zero. Cosa potrebbero farsene questi mondi di uno che non faceva sconti nella sua moralità (non moralismo, che è tutt’altro) e nel contarle e cantarle chiare, benché sempre con ironia, che perseguiva etica ed estetica, che non esitava a scrivere contro il comune pensiero non per partito preso ma solo perché - semplicemente – era il pensiero suo?

Il calcio è un incrocio tra i videogiochi e il Monopoly, oltre che una trasformazione permanente effettiva del biscardiano processo grazie a Internet, il giornalismo è illeggibile e la letteratura non è letta (questa è di Oscar Wilde). E guarderebbero a lui, come guardavano già cinque anni fa, quando morì il primo giorno di primavera, come a un alieno che si ostina a pensare e parlare in modo diverso (frasi fatte come “le seconde palle” lo facevano imbufalire), o a un tipo anche simpatico ma strambo, o infine a un nobile reazionario. Non una brutta definizione, ma se ci intendiamo sul concetto di nobile: non “appartenente a un ceto di sangue blu, a una casta”, ma “ricco di ideali e umanità, elegante d’animo”. Elegante di vestiti un po’ meno, ecco: non disdegnava di girare anche solo con una t-shirt e un gilerino e blue jeans, roba da far disperare una qualunque moglie, ma non la sua, Paola, anima gemella anche in questo.

Il maestro Brera

Mura è stato il più grande giornalista sportivo che l’Italia abbia avuto. Anche più grande di Gianni Brera. Un’opinione, certo, ma basata su un dato di fatto. Per capire i riferimenti di Brera dovevi usare l’enciclopedia, per capire quelli di Gianni dovevi usare, e neppure troppo, il dizionario. Stessa scuola, comunque: la cultura mescolata a qualcosa di plebeo – o tale ritenuto - come lo sport, nei cui andamenti invece Brera e Mura evidenziavano i dati tecnici, ma anche il lato umano, troppo umano, le grandezze d’animo e le meschinità, lo sforzo nel dare tutto e anche di più, il rispetto dell’avversario e le storie personali.

Brera gli fu maestro in senso quasi letterale. Le cose meritano di essere raccontate, perché già le origini dicono tanto di Mura. Che era il figlio di un carabiniere che un giorno trasportava ammanettato in treno un ladro e della donna che gli sedeva di fronte e se ne innamorò (non del ladro). Un carabiniere bravissimo a risolvere i casi, ma anche a capire il lato umano delle miserie che spesso si trovava davanti, per questo soprannominato “Il Maigret della Brianza”. Già qui un pezzo del destino di Gianni: la letteratura, in particolare i gialli e in particolare Simenon, e non a caso quando fu lui a scrivere libri l’investigatore si chiamò Magrite, anagramma di Maigret.

A fine liceo si ritrovò per caso alla Gazzetta dello Sport. Lui amava il calcio: era stato interista per via del cannoniere Angelillo, per poi diventare milanista quando fu venduto. Ma di sport sapeva poco, si chiuse nell’archivio del giornale e scoprì Gianni Brera. Chiese di conoscerlo e fu invitato nella sua casa sul lago di Pusiano. Quando lo vide, Brera gli diede un cestello e gli disse di andare a raccogliere le uova, «facendo attenzione a De Gaulle».

Gianni si trovò di fronte un’oca cattivissima che di profilo era identica al generale presidente della Francia, e che lo mise in fuga. Da qui nacque un rapporto di amicizia tra tavole di ristoranti e stadi, mentre il rapporto professionale si resse sull’intelligenza della rielaborazione, non dell’imitazione. Lo facciamo dire a Mura stesso: «Il mio primo articolo alla “Gazzetta” fu un’intervista a un brasiliano del Milan, Germano. Mi misi in testa di farlo come Brera. Lo consegnai, Il direttore Gualtiero Zanetti mi disse che potevo anche arrotolarlo e ficcarmelo in un certo posto, perché il giornale lo leggevano anche i muratori e la weltanschauung la usavano per farci i berretti di carta. Capii che dovevo essere altro». Rischiò però di non essere più nulla. All’esame da giornalista professionista fu bocciato: «All’orale mi dissero che ero troppo giovane, 21 anni. Andai in redazione a dimettermi. Trovai tutti i colleghi dietro a un tavolo pieno di tartine e bottiglie e Zanetti che disse che la mia bocciatura era il segnale che potevo diventare un buon giornalista».

Buono, anzi ottimo, Mura fu da subito e fino all’ultimo. Articoli serissimi, ma giammai seriosi, che svariavano da Miss Italia alla droga, dalla musica allo sport. Anche in prima persona: corse con la moglie la prima Stramilano. Fino a che fu proprio lo sport a prendere il sopravvento, grazie a “Repubblica”, dove iniziò a scrivere nel 1976, Olimpiadi di Montreal. Ma anche qui vagando: prima firma del calcio (dopo Brera, beninteso), ma anche autore con Paola, esperta di vini della rubrica Mangia e bevi sul Venerdì di “Repubblica”, recensioni di ristoranti che portavano un aumento del 30% del fatturato a chi riceveva la visita. E soprattutto la rubrica “Sette giorni di cattivi pensieri”, due colonne che ogni domenica facevano pelo e contropelo allo sport, ma in generale al mondo (“una volta ho dato 2 a Scalfari, un’altra 8 a Biscardi, non so cosa fece più scandalo”).

La tecnica della spugna

E poi l’amato Tour De France: «Uso la tecnica della spugna. Mi imbevo di tutto: gatti neri, paesaggi, Pantani, salite, fanciulle, discese. Poi strizzo. E quello che esce è l’articolo». La strizzatura, ovvero la scrittura, avveniva sempre con la macchina per scrivere, anche negli ultimi anni di vita in cui era rimasto il solo a non usare il computer in sala stampa. Un anno gli scassinarono l’auto e gli rubarono l’Olivetti: il giorno dopo “Repubblica” fu contattata da cinque lettori che gli regalavano la propria.Già i lettori, per spiegare Mura bisogna parlare anche di loro. Lui aveva una filosofia – almeno in questo – montanelliana: «Il mio vero padrone non è l’editore, ma il lettore». Risultato, non lasciava mai senza risposta un messaggio di chi gli scriveva, che fosse una lettera, una telefonata, addirittura un’e-mail quando dopo ritrosie e sforzi senza fine si decise a usare Internet. Spesso nel suo ufficio in redazione riceveva ammiratori, gonfi di domande (quasi sempre una su Brera, spesso anche su Maurizio Mosca, «una volta mi chiese di lui anche una suora») o desiderosi di consigli. Quelli che lui trovava simpatici li coinvolgeva in un infernale gioco, la mnemonica: chi si ricordava più calciatori con la P (una volta con Sandro Ciotti dissero Pelè dopo 100 altri), o titoli di canzoni di Jannacci o così via, che era anche il gioco suo preferito a tavola al ristorante, quando non scopriva un Lagrein trentino, un caciocavallo campano o un fiore sardo, un pecorino così intenso e stagionato da lasciarti le dita intrise di odore di torba.Un sapore vero e genuino, come tutto lo era in Mura.

Che eredità può lasciare oggi uno così a un mondo così? Solo il ricordo in chi ha avuto il privilegio di conoscerlo e che può usare una delle tante frasi che lui amava: «Io ti dico che è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati».

© RIPRODUZIONE RISERVATA