Grandi autori svedesi ispirati dal Lario

La mostra “Voci dal paesaggio nordico” occasione per indagare storici legami culturali. Dalla Pinacoteca di Como due passeggiate sui passi di Strindberg (1884) e Lagercrantz (1934)

La mostra “Voci dal paesaggio nordico” degli artisti svedesi Britta Marakatt-Labba e Lars Lerin si può visitare alla Pinacoteca di Como fino al 13 ottobre da martedì a domenica ore 10-18. Sabato 29 giugno e sabato 3 agosto alle 10 partiranno dalla Pinacoteca due passeggiate curate dall’associazione Sentiero dei Sogni per i Musei Civici. Inizieranno con una visita alla mostra e proseguiranno seguendo la prima il percorso di Strindberg e la seconda quello di Lagercrantz con aperture straordinarie di ville e monumenti. Info: per il 29 giugno http://sveziacomo1.eventbrite.it; per il 6 luglio http://sveziacomo2.eventbrite.it

Due soggiorni a Como separati da mezzo secolo (che ha mutato la storia europea e mondiale), due diversi momenti nella vita di due viaggiatori in terra lariana, così come radicalmente diversi sono i presupposti e gli esiti: la storia degli svedesi a Como è tutta da raccontare e da rivivere in due passeggiate organizzate dall’associazione Sentiero dei Sogni con il sostegno dei Musei Civici di Como, partendo dalla mostra “Voci dal paesaggio nordico” in corso in Pinacoteca (dettagli nella scheda a lato). Il primo, nel 1884, è stato August Strindberg, drammaturgo e narratore, gloria nazionale tuttora controversa, che ha prefigurato con lucida e profetica spietatezza l’immagine di una società futura solo apparentemente libera e democratica, inserendosi idealmente nel solco tracciato dal quasi conterraneo e rivale artistico Henrik Ibsen.

Non deve quindi sorprendere che l’iconoclasta Strindberg, nato nel 1849 a Stoccolma e morto nella capitale svedese nel 1912, abbia vissuto in maniera molto personale anche il mito nordico dell’Italia. Per il già ricordato Ibsen, l’Italia aveva infatti rappresentato un’esperienza decisiva (una «fuga dalle tenebre verso la luce», secondo le sue parole), mentre l’umorale e fumantino Strindberg visita il Meridione con poche aspettative, che peraltro rimangono deluse. Nemmeno Como, visitata tra il 15 e il 16 marzo, costituisce un’eccezione.

Idillio ingannevole

La prima impressione, a dire il vero, è poco “strindberghiana”, quando il viaggiatore scende al porto per trovare una barca: «Subito se ne offrì una. Era una cosiddetta “Lucia”, appuntita come una gondola a entrambe le estremità e coperta di archi simili a cerchi di botte. Il mattino era fresco e sereno e sul lago di Como mi sentivo di nuovo come a casa». La gita sembra improntata all’idillio: il sole «illumina una chiesetta che subito inizia a cantare il mattutino per bocca di una piccola campana», mentre l’imbarcazione passa «sotto alcuni salici piangenti in germoglio, nei pressi di una villa inglese, dove c’è un piccolo padiglione su una lingua di terra». Ma come sempre in Strindberg, uomo di repentini entusiasmi e non meno repentini disincanti, l’idillio si rivela di brevissima durata: «Attraverso una finestra con un’inferriata un mucchio di volti curiosi guarda fuori, ma mi stupisce che abbiano tutti il capo bianco e occhi così grandi e tondi che a distanza riesco a distinguerli. Quando ci avviciniamo, scopro che hanno anche grandi bocche aperte, come se ridessero, e mostrano tutti i denti. Quando siamo ancora più vicini, mi è chiaro che sono teschi di morti. Un ricordo della grande peste, dice il barcaiolo. L’incontro con la morte in un paesaggio primaverile immerso nel sole giunge piuttosto inaspettato». Si tratta dell’ex lazzaretto della punta di Geno, oggi Villa Cornaggia Musa, che costituirà uno dei momenti topici della prima passeggiata. Strindberg fa poi ritorno in città e sintetizza in questo modo le proprie impressioni: «La piccola Como, produttrice di crani, situata sul suolo di una ridente vallata, riparata dagli ardenti venti del tempo da alte montagne con piccole chiese». Tre anni dopo, nella parte finale di “Signorina Giulia”, il servo Jean parlerà del Lario come di una “fossa piovosa”.

Presagio di un destino

Esattamente cinquant’anni dopo, nel 1934, un altro letterato svedese, Olof Lagercrantz, visita Como: a lui è dedicata la seconda passeggiata. Sono differenti le premesse (del tutto ottocentesche in Strindberg, già pienamente novecentesche nel caso di Lagercrantz), e quindi saranno differenti anche gli esiti. Nato nel 1911 a Stoccolma, Lagercrantz è morto nel 2002 e oggi viene giustamente considerato un classico delle letterature scandinave. Ma nel 1934, quando arriva a Como, il giovane Olof è un ventitreenne disorientato, in fuga da un ambiente familiare e sociale chiuso e claustrofobico. Lagercrantz proviene da quella Svezia “profonda”, se così la si può definire, già ampiamente descritta dal suo “antenato” Strindberg e poi ripresa tra gli altri da Ingmar Bergman in “Fanny e Alexander”: l’onnipresente impronta pietista, la plumbea cappa di un protestantesimo tutto fondato sul senso di colpa, più nello specifico un padre tirannico, la madre sofferente di nervi, la sorella suicida, le condizioni di luce (la “tenebra” ricordata dialetticamente da Ibsen). Tutti questi aspetti contribuiscono all’insorgere di una “malattia mortale” di derivazione kierkegaardiana, che nel giovane Lagercrantz assume le connotazioni organiche della tubercolosi.

In fuga dalla Svezia, Lagercrantz trova rifugio in Francia, poi in alcuni sanatori della Svizzera Italiana (Ascona e Agra) e infine a Como. Nell’autobiografia “Il mio primo cerchio”, uscita nel 1982, l’arrivo in città viene rievocato in questi termini: «Mi recai a Como, dove presi una stanza in un alberghetto. Lì mi misi a letto con la siringa e trascorsi dieci giorni di beatitudine interrotta soltanto da brevi attacchi di malessere, quando gli effetti della morfina si attenuavano». Il giovane Olof è un osservatore dotato di una spiccata sensibilità, come rivelano le annotazioni relative al Monumento ai Caduti, dal quale passerà la seconda passeggiata: «Quando le fiale furono terminate, uscii in città per procurarmene delle altre, e dappertutto mi risero dietro. A Como c’è un monumento di granito commemorativo della prima guerra mondiale, elevato in onore di ventimila eroi morti a Trieste nel 1916 […]. Sul monumento di Como cercai di scrivere una poesia, che raccontava di come il sacerdote preposto alla liturgia e alla sorveglianza dell’altare venisse derubato da un discendente di uno degli eroi valorosi – se per comprarsi della morfina oppure no, non l’avevo ancora deciso. Il desiderio della morfina si era insediato nel mio corpo come un male. Riuscii a cavarmela. Una ragazza dai capelli neri, una delle poche prostitute della città, si prese cura di me».

Salvato dalla “ragazza dai capelli neri”, Lagercrantz sosterà a lungo in Italia e guarirà dalla “malattia mortale”. I giorni trascorsi a Como costituiscono uno snodo decisivo, perché è proprio sul Lario che il giovane svedese ha incontrato per la prima volta quello spirito del Meridione in seguito approfondito come italianista, studioso di Dante e traduttore. Ha scritto, infatti, alla fine delle sue impressioni lariane, restituendo in maniera molto penetrante il clima sociale del ventennio: «L’Italia somigliava a un’opera comica. Le quinte erano imponenti. E su di esse marciava la milizia fascista coi nasi al vento. Ma non faceva in tempo a passare oltre che spuntava fuori gente d’ogni genere, che rideva e faceva smorfie al potere». Nei decenni successivi, Lagercrantz diventerà uno dei nomi di spicco della cultura svedese, scriverà tra l’altro la prima grande biografia di Strindberg e dedicherà un’enorme quantità di saggi, approfondimenti e analisi filologiche alla “Divina Commedia”. Non è affatto esagerato, nel suo caso, dire che tutto è nato a Como, quando la casualità e un vago presagio hanno cominciato a trasformarsi in un destino. Il cerchio si chiude, ciò che Strindberg non ha saputo o potuto vedere, mezzo secolo dopo diventa per Lagercrantz un segnavia: «Era come entrare dritto dritto nel mondo del “Decamerone”. Come allora c’era la peste nera a far da cornice cupa ai diversi quadri, così ora c’era la tirannia fascista. Ma dentro la cornice saltava, rideva e amava questa robusta razza mediterranea, che sin dai tempi più antichi non ha mai interrotto i suoi giri di danza».

© RIPRODUZIONE RISERVATA