I giorni di Fiume e il coraggio di D’Annunzio

Un testo inedito di Giovanni Comisso. Lo scrittore testimone dell’impresa del poeta

Allorché si pensa all’opera diuturna compiuta da D’Annunzio a Fiume per oltre quindici mesi si è presi dall’incanto del prodigio. L’uomo che sembrava nato al culto solitario dell’arte e della poesia, si rivela ivi strenuo combattitore senza riposo, politico di mirabile accortezza nella più intricata e delicata situazione internazionale, legislatore saggio e umanissimo, stratega di grande calcolo e di acute intuizioni.

I discorsi e gli scritti fiumani sono alla misura della sua più alta produzione letteraria. Senza nulla sacrificare alla nobiltà della forma, e sempre densi di richiami storici e di rievocazioni mitiche e letterarie che testimoniano di una memoria ferrea e immediata, essi hanno una concretezza che esclude ogni divagazione. L’eleganza del dire, connaturata in lui, si disposa a forma di un popolarismo antico e nuovo che toccano ed esaltano gli ascoltatori e che feriscono e scuoiano tutti quelli ch’egli fa oggetto del suo sdegno.

Il governo di Roma ricorre all’assedio economico e D’Annunzio risponde: «Impotente a donarci, Sua Indecenza la Degenerazione adiposa si propone di affamare i bambini e le donne che con bocche santificate gridano: Viva l’Italia! Col soccorso di tutti i buoni italiani, noi resisteremo senza fine». A un certo momento la famigerata Conferenza della pace, dinanzi al sublime impaccio di Fiume che riempiva del suo nome il mondo, credè opportuno di affidare la soluzione della spinosa questione all’Italia, la quale non avrebbe potuto trovarla senza un’intesa col neonato governo jugoslavo.

“La Reggenza del Carnaro”

Tutto questo non fece che incrudire e avvelenare i rapporti tra Fiume e il governo di Roma, perché un accordo italojugoslavo significava transazione e rinuncia da parte nostra non solo all’integrità del territorio fiumano, ma alla Dalmazia che pure era stata [DEF]assegnata nella sua interezza all’Italia dal Patto di Londra. Un simile accordo diventava ancora più odioso e detestabile perché Fiume e Dalmazia vi figuravano come oggetti di mercato, né si consentiva alla città olocausta, che pur disponeva di un regime di fatto, facoltà di intervenire nelle trattative.

A meglio affermare in cospetto del mondo la realtà vivente di Fiume, D’Annunzio pensò di dare alla città una definita forma costituzionale, e così nacque, nell’agosto del 1920, “La Reggenza italiana del Carnaro”. Rileggendone oggi gli statuti e gli atti illustrativi si ha l’impressione di trovarsi dinanzi a una poesia sociologica.

Nell’ideale di Stato che D’Annunzio delinea in paragrafi e articoli, visibilissimi sono i ricordi dell’antico libero comune, abbelliti dalla tradizione letteraria, e la parte inventiva ha indubbiamente il pregiudizio della ricerca dello Stato perfetto. Nondimeno, negli statuti della Reggenza del Carnaro è fissato quel concetto della solidarietà armonica fra produttori e prestatori d’opera che doveva in seguito costituire il fondamento etico e sociale di grandi regimi politici europei. Ma con l’istituzione della Reggenza del Carnaro, D’Annunzio mirava ad uno scopo politico immediato e assai più importante per la causa italiana. Egli aveva voluto, con industre accorgimento tattico, dare a Fiume una autonomia statuale affinché la città cessasse di essere un oggetto passivo di trattative e di mercato alla mercé di estranei. Una volta costituito, il piccolo autonomo Stato del Carnaro si sarebbe elevato giuridicamente al rango di ogni altra potenza, sarebbe diventato visibilmente padrone di sé stesso e perciò qualificato a discutere del suo destino nei consessi internazionali in condizioni di parità.

Se il governo di Roma fosse stato meno servile verso gli stranieri, meno preoccupato della insubordinazione legionaria e più fiduciosa nel suo diritto, avrebbe saputo trarre dal fatto compiuto della Reggenza del Carnaro un abile partito nelle trattative internazionali sulla questione di Fiume. Cominciarono, invece, per Fiume i mesi più cupi, nunzi del sinistro epilogo del dicembre. La situazione economica della città, dopo circa un anno di isolamento e di assedio, era andata fatalmente peggiorando. Le truppe e i volontari affluiti in gran numero da ogni parte d’Italia, avevano dovuti essere in gran parte rimandati alle loro case, perché prolungandosi troppo l’impresa, la città non era in condizione di nutrire un grosso esercito.

Solidità

A Roma si pensò e si sperò che il Poeta, “ritenuto nella sua prigione curvato alla sua bisogna quotidiana, al suo sforzo penoso, rimasto a guardare, di quando in quando, dalla finestra, da undici mesi, le quattro gru immobili sul molo, le quattro gru che sembravano quattro giganteschi patiboli senza impiccati” finisse con lo stancarsi e invece si ingannavano perché non lo conoscevano abbastanza: per piegarlo bisognava ricorrere alla forza. Il governo di Giolitti, salito al potere nel giugno, dopo la caduta di Nitti, era addivenuto con la Jugoslavia alla stipulazione del Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) in base al quale Fiume, costituita dal “Corpus separatum”, veniva proclamato Stato indipendente sovrano, mentre tutta la Dalmazia, tranne Zara, era attribuita alla Jugoslavia. La lettera segreta del ministro Sforza ad Ante Trumbic, riconosceva inoltre alla Jugoslavia il possesso di Porto Baross e del Delta.

L’iniquità del contratto italo-jugoslavo suscitò l’indignazione dei dalmati e dei fiumani. La Reggenza del Carnaro respinse formalmente il trattato che abbandonava con la Dalmazia una parte dei diritti sanciti nel Patto di Londra, e che strozzava Fiume. Ma tutti gli argomenti furono vani. Il generale Caviglia, esecutore degli ordini del governo di Giolitti, cominciò il 28 novembre con l’intimare al Comandante lo sgombero delle isole di Veglia e di Arbe che D’Annunzio aveva fatto occupare da nuclei di bersaglieri e di fiamme nere.

D’Annunzio rispose: «Non riconosco la sua autorità. Terrò le isole. Aspetto ch’Ella mandi la sua gente a cacciare i legionari. La sua gente sarà ben ricevuta».

Il 21 dicembre il generale Caviglia inviò un ultimatum. Nel proclama ai legionari, D’Annunzio rispose additando il dovere della disobbedienza: “Io, miei compagni, pongo per pegno della mia e della vostra disobbedienza contro i venditori e i traditori di Roma, la mia vita tutt’intera dovuta alla più bella Causa che mai sia stata data all’uomo per la gioia e per la gloria di ben morire”. Nella sera del Divino Messaggio cristiano, D’Annunzio si rivolse ancora agli italiani: “Il delitto è consumato.

La terra di Fiume è insanguinata di sangue fraterno. Sul far della sera, all’improvviso, le truppe regie in numero soverchiante hanno attaccato i legionari di Fiume, i quali, per evitare ogni provocazione, avevano ristretto la loro linea di difesa e avevano mandato ai fratelli quel saluto cristiano che nella notte di Natale usavano scambiarsi le nostre trincee e le trincee austriache!... Nella notte trasportiamo sulle barelle i nostri feriti e i nostri morti… Il popolo eroico, contro l’orrenda aggressione, dà un esempio mirabile È tutto in piedi. Accorre alle barricate. I vecchi, le donne, i giovinetti si armano”.

Bombardamento

L’atto più ignobile e sciagurato in questa tristissima vicenda fu il tentativo fatto, col bombardamento del palazzo, di uccidere il comandante. Alle 15,15 del giorno 16, una cannonata della nave “Andrea Doria” prese di mira e colpì esattamente la stanza dove D’Annunzio era al tavolo di lavoro con alcuni ufficiali. Il comandante fu soltanto leggermente ferito.

Ma il giorno 28, quando dimostratosi impossibile il disegno di prendere Fiume con le fanterie, il generale Ferrario ordinò per l’indomani il bombardamento della città col concorso delle batterie pesanti già avvicinate al fronte di combattimento e delle batterie da 305 della Regia Marina, l’epopea fiumana poteva considerarsi finita.

Il Comandante non si sentì di imporre alla città eroica la rovina totale “che il governo di Roma e il comando di Trieste le minacciavano” e quindi rassegnò le sue dimissioni e quelle del Collegio dei Rettori della Reggenza a un Consiglio di guerra, il quale deliberò di “cedere alla minaccia di distruzione della città e della popolazione civile non combattente e di subire in massima l’imposizione del trattato di Rapallo”.

Gabriele D’Annunzio era giunto agli estremi limiti dell’eroismo, oltre i quali ogni incertezza sarebbe caduta nel regno del disumano. Nella sua strenua lotta contro il Governo di Roma, egli forse aveva sperato che questo non sarebbe mai giunto a rivolgere le sue armi contro la città martire; e certamente egli fece di tutto per evitare il conflitto fratricida. Sperò sempre nella resipiscenza dell’ultima ora, anche quando il sangue era già stato sperso nella notte santa di Natale. Sperò soprattutto nella riscossa della coscienza nazionale che avrebbe fatto cadere le armi dalle mani degli aggressori. Invano. Non per questo l’epopea di Fiume rimaneva sterile di effetti.

Il sacrificio compiuto, oltre a costituire un retaggio di gloria che onorava l’Italia e dal quale le giovani generazioni avrebbero tratto gli ideali della rinascita, era già ricco di frutti positivi e tangibili. Con quel senso della concretezza che non gli fece mai difetto, D’Annunzio li indicava con precisione di politico e di storico nella lettera diretta al sindaco Gigante: “L’Italia preparò a Rapallo la morte nazionale della città italiana. Coperse con una maschera di libertà il più certo servaggio.

Tuttavia non aveva potuto ottenere il confine giulio se non in grazia della nostra resistenza sagace e della nostra volontà perpetua di lotta. È indubitabile che Fiume ha dato alla Patria nemica il confine giulio”.

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