Il giorno in cui il pubblico conobbe l’arte

Il testo dello studioso Oskar Batschmann racconta l’evolversi del concetto di massa all’interno dei musei. Un exursus tra nazioni ed epoche che parte dall’Umanesimo per arrivare alla grande svolta di fine Settecento

“Senza il pubblico, tutto è morto! Se venisse rappresentato davanti alle sedie vuote, perfino il dramma più bello non verrebbe applaudito”. Chi scrive è il critico francese Hilaire Sazerac recensendo l’esposizione parigina del Salon del 1834. Ma alla nostra mente queste parole rievocano immediatamente quello stato di smarrimento, del tutto nuovo e inaspettato, che abbiamo vissuto nei mesi della pandemia quando le sale da concerto, i teatri, i musei e tanti altri spazi collettivi, erano obbligatoriamente chiusi. Mai come allora il desiderio di essere ascoltati, osservati, è stato così forte.

Un’esperienza importante su cui si è ragionato a lungo dal momento in cui non era più assicurata la presenza dell’altro: l’autrui attraverso il quale prende significato l’opera d’arte. E non solo quella, parafrasando il filosofo Emmanuel Levinas (1906- 1995). Sul tema del pubblico, come singolo individuo, come massa o folla, è stato da poco pubblicato un volume che racconta con brio ed intelligenza, l’evolversi di questo concetto. L’Autore, lo storico dell’arte svizzero Oskar Batschmann, parte dalla considerazione che «la storia dell’arte deve ancora scoprire il pubblico dell’arte».

È una frase un po’ ad effetto perché in realtà la trattazione che egli svolge in circa centocinquanta pagine (tutte molto godibili), testimonia da sempre la presenza di uno spettatore, certo in situazioni e in modalità molto diverse tra loro, quanto ad epoche, a nazioni e a classi sociali.

Volume prezioso

Il volume è suddiviso in quindici capitoli, arricchito di note e di una accurata bibliografia che lo rendono prezioso anche “agli addetti ai lavori” (quindi una categoria ben precisa di pubblico).

Particolare è il corredo iconografico che presenta riproduzioni di dipinti, disegni e stampe (anche poco note), che restituiscono, come meglio non si potrebbe, quel clima di “sensibilità e commozione” (capitolo 8) e di “sorrisi, grasse risate e caricature” (capitolo 9) che rendono la lettura particolarmente avvincente. Significative sono due fotografie che aprono e chiudono il libro: una scattata al Museo del Prado, l’altra al Louvre in anni recenti.

Entrambe rappresentano visitatori accalcati davanti alle due icone del museo, “Las Meninas” di Diego Velàsquez e la “Gioconda” di Leonardo da Vinci, in quello che ormai è considerato un rito collettivo, compresi gli onnipresenti selfie. Questo sembra essere il nuovo pubblico a livello planetario.

Non c’è sarcasmo in Batschmann. È semplice constatazione di uno stato di fatto. D’altra parte lo sa bene chi lavora nelle pinacoteche, nelle gallerie. Oggi non è più sufficiente rendere libero l’accesso alle sale del museo. Bisogna sedurre il visitatore, creare il desiderio. E convincerlo a ritornare.

Un gesto apparentemente semplice, ma che presuppone una complessa strategia psicologica e gestionale perché – è dimostrato- la competizione è molta e le persone si stancano presto. Il volume ripercorre secoli di storia, con un breve accenno iniziale a Plinio il Vecchio (“Storia Naturale”, I secolo d. C.), attraversando l’Umanesimo, il Rinascimento, fino a giungere, e sostare con annotazioni assai dotte, su quella che fu la grande svolta in questa vicenda: l’entrata in scena del pubblico con la creazione dei primi musei aperti a tutti (in senso relativo).

Svolta

Siamo a cavallo tra fine Settecento e inizio Ottocento. La pinacoteca di Brera viene inaugurata nell’agosto 1809 con precise norme di accesso e di comportamento, elencate in un dettagliato regolamento, “Discipline per l’aprimento delle Regie Gallerie de’ Quadri e delle Statue a comodo degli Artisti” (1810).

E se gli artisti sono i primi fruitori del patrimonio artistico, l’articolo XVII precisa: “Nel giovedì d’ogni settimana le R.R. Gallerie sono aperte al pubblico, dalle ore undici antimeridiane alle due pomeridiane, e sono accessibili in qualunque giorno dell’anno ai forestieri che si presentino muniti d’un biglietto della Direzione Generale d’Istruzione Pubblica”.

Il “forestierio”, cioè i viaggiatori di tutta Europa (“Grand Tour”), è la categoria di pubblico maggiormente corteggiata.

Seguiranno poi i collezionisti, i mercanti, gli “intelligenti”, ma anche la gente comune, il popolo, i “Cittadini”, per usare un termine che si rintraccia nei documenti d’archivio. Una traccia linguistica dell’eredità dell’Illuminismo.

E con questo ventaglio di presenze, qui, come in tutta Europa, vengono predisposti i cosiddetti “registri” per conoscere le opinioni dei visitatori, le loro preferenze, le loro opinioni. Annotazioni preziose di cui fare tesoro. Perché come la letteratura è storia dei lettori (si pensi alla letteratura d’evasione), così anche la storia dell’arte è storia del suo pubblico.

Ed è proprio su questi temi che la museografia -prima americana (T. Lewis Low, “The Museum as a Social Instrument”, New York 1942), poi europea- si interroga dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale. «Come far vivere il museo? Come presentarlo al pubblico in modo che ne ecciti sempre più l’interesse alla cultura?».

Sono domande che Franco Russoli, giovane collaboratore della direttrice della pinacoteca di Brera, Fernanda Wittgens, pone alla Quarta Conferenza generale di ICOM (International Council of Museums) di Ginevra, nel luglio 1956. Temi urgenti che presuppongono prese di posizioni importanti e decisioni concrete, come sarà la creazione di dipartimenti per l’educazione artistica in tutto il mondo, oggi denominati “servizi educativi”.

Prosegue ancora Franco Russoli: «Vadano i visitatori (…) nei loro musei, guardino e confrontino e controllino, esprimano le loro opinioni. Il museo ha bisogno della partecipazione del pubblico alla sua vita, come il pubblico ha bisogno del museo, se vuole veramente partecipare alla vita della propria epoca». Che questo sia l’augurio migliore per il 2025.

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