Il ritorno di “Berlin Alexanderplatz”: un testo originario

L’analisi del fortunato romanzo di Alfred Döblin. Il mito di Berlino durante la Repubblica di Weimar diventa metafora della vita, tra rimandi e simbolismi

Esattamente come la pianta “originaria” favoleggiata da Goethe, è lecito supporre – ma con motivazioni più fondate e realistiche – che ci siano anche dei libri “originari”. È per questo motivo che un lettore del calibro di Hermann Hesse disse una volta che nei grandissimi scrittori c’è tutto. Basta quindi scegliere l’intera opera – o perfino un singolo libro – di uno di questi grandissimi scrittori, e in linea teorica non c’è bisogno di leggere altro.

Si tratta ovviamente di un voluto paradosso, ma non privo di un sostanziale fondo di verità, perché ci sono alcuni libri “originari” che contengono veramente tutto. Non sono tantissimi, ma nemmeno pochissimi.

Nuovo linguaggio

Uno di questi libri è “Berlin Alexanderplatz” del berlinese d’adozione Alfred Döblin, che non è soltanto una delle vette della prima metà del Novecento e il culmine dell’espressionismo in ambito letterario, ma è anche e soprattutto un mondo, perché reinventa un luogo specifico, la Berlino degli ultimi anni della Repubblica di Weimar, e lo trasforma nella metafora della vita e perfino nella vita stessa, in virtù di un prodigioso gioco di rimandi e simbolismi sorretto da un idioma, il cosiddetto “döblinese”, che nell’intero Novecento ha pochi e illustrissimi paragoni.

Psichiatra e poi medico condotto per professione e sincera passione (esercitava nei quartieri popolari di Berlino, spesso gratuitamente), narratore per vocazione e desiderio di conoscenza, non meno di Joyce col “flusso di coscienza”, Céline con la “piccola musica” e in seguito Thomas Bernhard con l’“arte dell’esagerazione”, Alfred Döblin ha infatti creato un linguaggio, e sulla base di questo linguaggio ha reinventato e ricreato la realtà: la città di “Berlin Alexanderplatz”, quindi, da concreto luogo geografico diventa una categoria dello spirito, non un possibile aspetto della vita ma appunto la vita stessa nella sua caotica e sfuggente totalità. Come ha osservato il suo concittadino e poi compagno d’esilio Walter Benjamin: «Questo libro è un monumento al mondo berlinese, proprio perché il narratore non si è preoccupato di celebrare la sua città, di diventarne il cantore. Egli parla attraverso di essa, Berlino è il suo megafono».

Il che è verissimo, perché il capolavoro di Döblin non è un romanzo su Berlino oppure ambientato a Berlino. “Berlin Alexanderplatz” è Berlino: non il ritratto, ma il mito di una grande città. Pubblicato nel 1929, mentre in Germania cominciavano profilarsi le prime nubi del nazismo, il romanzo racconta la vicenda di un tipico esponente del sottoproletariato urbano dell’epoca, Franz Biberkopf, ex operaio edile e facchino, che è appena uscito dal carcere di Tegel, dove ha scontato quattro anni per aver ucciso la sua compagna al termine di un furioso litigio.

Ma fuori (“dall’altra parte”, “drüben”, che nella Berlino divisa dal Muro diventerà poi un modo di dire) non lo attendono né una nuova vita, né un possibile nuovo inizio: nella metropoli tentacolare, anonima, rumorosa, inquieta, disgregata, disumana e implacabile, Franz Biberkopf tenta disperatamente di rifarsi una vita restando onesto e comportandosi in maniera dignitosa, alla ricerca di qualcosa che vada oltre la mera necessità di guadagnarsi il pane quotidiano.

Discesa agli inferi

Però la città lo respinge, il suo “ventre” alla Émile Zola lo ingoia e poi lo rigetta: tutte le persone che incontra, soprattutto il falso amico Reinhold, tendono infatti a riportarlo sulla vecchia strada e verso la vecchia vita, di modo che al povero Franz non rimane in conclusione altra scelta che il crimine, in una specie di ripetizione dell’identico. Di episodio in episodio, in una metropoli infida che assomiglia a una giungla di asfalto e cemento, abbigliato come un pezzente, con un braccio amputato a causa di un incidente stradale, e mantenuto per pietà da una giovane prostituta che poi verrà barbaramente uccisa, Franz Biberkopf assume sempre più le sembianze di un disegno di Grosz. La sua personalissima discesa agli inferi si chiude con l’assunzione in una fabbrica, dove gli viene affidata la mansione di portiere ausiliario. Ma è tutt’altro che un lieto fine, perché si ha la certezza che tutto ricomincerà daccapo.

Si è parlato di “Berlin Alexanderplatz” – non a torto, anche se il paragone maggiormente congruo è con John Dos Passos e la New York di “Manhattan Transfer” e “Il 42° parallelo” – come del corrispettivo tedesco dell’“Ulisse” di Joyce, ma forse la decisiva importanza del capolavoro di Döblin può essere compresa soprattutto a partire dagli autori che ne hanno preso spunto, direttamente o indirettamente: da Bertolt Brecht a Rainer Werner Fassbinder (che nel 1980 ne trasse un lunghissimo sceneggiato televisivo in quattordici puntate), da “Stiller” di Max Frisch a “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, due romanzi nei quali le tematiche del ritorno, del reduce, dell’estraneità in un ambiente che dovrebbe essere familiare, e infine il rifiuto dell’identità imposta dagli altri, sono tutte riconducibili alle suggestioni berlinesi evocate da Döblin.

Narrazione multimediale

“Berlin Alexanderplatz” rimane un romanzo innovativo e rivoluzionario per la tecnica narrativa, il taglio, il montaggio e quella che oggi definiremmo multimedialità. Perché lo si legge, ovviamente, ma ad ogni pagina si ha piuttosto l’impressione di vedere e ascoltare le vicende raccontate da Döblin, come se il lettore venisse a trovarsi in un ideale punto di convergenza tra parole, suoni e immagini.

Tutte queste caratteristiche, unite alle marcature dialettali, nonché alle forzature sintattiche e lessicali del “döblinese”, fanno di “Berlin Alexanderplatz” un romanzo pressoché impossibile da tradurre.

La nuova e meritoria versione integrale di Giusi Drago, pubblicata negli Oscar Mondadori, si aggiunge alla storica e ancora valida traduzione di Alberto Spaini, apparsa nel 1932, solo tre anni dopo la pubblicazione in lingua originale, ma priva di molti passi caduti sotto la mannaia dell’occhiuta censura fascista. Le scelte sintattiche e lessicali della nuova traduttrice sono molto coraggiose, in alcuni casi piuttosto spericolate (il dettato originale è di incredibile complessità), ma raggiungono spesso la massima vicinanza possibile col “döblinese”, intessuto di miti classici, canzoni popolari berlinesi e storie dell’Antico Testamento.

Ma soprattutto forgiato e modellato sui suoni, le cacofonie e il ritmo di una città/mondo pulsante, violenta, pericolosamente sospesa sul baratro della Storia: uno scenario – si vorrebbe quasi dire: un crepuscolo di apocalisse – nel quale un secolo dopo è impossibile non riconoscersi.

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