Il sequestro di Cristina Mazzotti ripercorso dal giornalista Emilio Magni: «Il mio debito con lei lo pago raccontandola»

L’intervista Emilio Magni presto sarà in libreria con un saggio dedicato al tragico sequestro Mazzotti. «La conoscevo, ricordo il suo sorriso: la vicenda segna dolorosamente la mia storia personale e professionale»

Primo luglio 1975. È circa l’una di notte, a Longone. Cristina Mazzotti, studentessa liceale, diciotto anni compiuti da pochi giorni, è di rientro a casa, dopo aver festeggiato il compleanno e la promozione al liceo classico, alla pasticceria Bolla di Como, insieme agli amici di sempre.

Cristina è in auto con il fidanzato Carlo Galli e l’amica Emanuela Lusari. A poca distanza dalla villa di famiglia, che sorge ad Eupilio, la Mini Minor su cui i tre viaggiano viene bloccata da quattro uomini a bordo di una Giulia e una Fiat 125. Sono sequestratori, vogliono Cristina. La ragazza non oppone resistenza e viene portata via. Non farà più ritorno. La ritroveranno, in settembre, esanime, gettata in una discarica, a Galliate, nel Novarese.

Come ricorda bene chi ha vissuto quel periodo, la tragica storia di Cristina Mazzotti ha segnato profondamente l’Italia degli anni Settanta, stretta tra i delitti incessanti delle bande di sequestratori e il terrorismo. Il rapimento della giovanissima Cristina, conclusosi nel peggiore dei modi possibili, dopo una prigionia crudele, è stato al centro delle cronache, delle ricostruzioni giornalistiche e di analisi criminologiche, forensi e sociologiche. Ne hanno scritto in tanti, ma ora, a quarantanove anni dai fatti, ad analizzare il caso, che presenta ancora punti non chiariti, è Emilio Magni. Lo scrittore e soprattutto giornalista erbese pubblicherà, per Mursia, il prossimo 24 luglio, il libro “Il rapimento Cristina Mazzotti. Una buca, cinque centimetri d’aria”. Non solo un memoriale, ma anche lo spunto per riflettere su una vicenda giudiziaria ancora, per molti versi, oscura.

Magni, cosa l’ha spinta a scrivere sul delitto Mazzotti?

Con queste pagine, vorrei pagare il debito che sento di avere nei confronti di Cristina, una ragazza solare che conoscevo dall’infanzia. Veniva spesso a trovare i nonni materni che abitavano a pochissima distanza da casa mia. Io stesso, da ragazzo, ero spesso andato a lezione di latino e di inglese da suo nonno, Alberto Airoldi. La conobbi da bambina e poi la ritrovai, qualche anno dopo, ragazza che frequentava la bella compagnia di coetanei del paese.

Si ritrovavano tutti al Bar Bosisio di Erba?

Gli incontri avvenivano lì o alla pizzeria “Vispa Teresa”. Erano ragazzi semplici e simpatici che si divertivano insieme. Non era la movida roboante e un po’ fracassona di oggi. Ho un ricordo nettissimo, risalente a qualche sera prima del rapimento. Cristina era seduta sui gradini dell’ingresso del Bar Bosisio. Aveva in braccio mia figlia Benedetta che all’epoca aveva cinque anni. Le aveva regalato la “cicca americana”. Mi salutò sorridendo. Non potrò mai dimenticare e ogni volta che passo di lì – ora c’è una banca al posto del bar – guardo i gradini e penso a quel sorriso.

Ha parlato di un debito con Cristina…

Sì. Provo dolore per non essere riuscito a fare nulla per lei. Certamente, noi cronisti non avremmo potuto far nulla. Lo so. Tengo a dire però che, in quel momento, anche nelle redazioni, soprattutto alla Provincia, con il direttore Gianni De Simoni, giornalista indimenticabile al quale dedico un capitolo del libro, vivevamo i sequestri di persona (incessanti dopo il boom economico, si pensi che il 1977 fu l’anno apicale del fenomeno, con settantacinque sequestri in Italia, ma soprattutto in Lombardia, su un numero complessivo di circa cinquecento rapiti in dieci anni, ndr) come vicende personali, quasi che fossero stati rapiti dei nostri cari. Alla notizia del ritrovamento del corpo di Cristina, vivemmo la tragedia anche come uno smacco. È una storia che ha segnato, dolorosamente, la mia vita personale e professionale.

Quali obiettivi si pone il suo libro?

Voglio raccontare chi era Cristina, una ragazza bella e sorridente, forte e determinata, la leader positiva della comitiva. Per fare questo, oltre ad attingere ai miei ricordi personali, ho intervistato anche la sua amica, Emanuela Lusari, con lei al momento del sequestro. Avevano studiato insieme e si conoscevano bene. Emanuela mi ha raccontato tanti episodi e mi ha anche concesso di pubblicare alcune foto inedite. Era stata anche, con Cristina, in Argentina dove il padre della giovane rapita, Elios, aveva interessi economici. Riporto poi le testimonianze dei familiari tra cui la cugina Laura Saviano, dell’attuale presidente della Famiglia Comasca, Daniele Roncoroni, all’epoca amico di Cristina e del suo boy friend, Carlo Galli.

Qual è il secondo intento della sua opera?

Mi preme sottolineare che, a quasi mezzo secolo dai fatti, la vicenda è, per molti versi, ancora un giallo con molti aspetti da chiarire. Solo recentemente (l’udienza preliminare del processo si è tenuta il 9 aprile del 2023, ndr), ad esempio, gli inquirenti hanno individuato e mandato a giudizio i quattro presunti sequestratori che agirono nella notte del sequestro. Si tratta di Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò, Antonio Talia e Giuseppe Morabito, calabresi legati alla ‘ndrangheta. La formula accusatoria è “omicidio con dolo”, crimine per il quale il Parlamento italiano ha abolito la prescrizione. Questo terzo filone del processo è importantissimo, perché, è la conferma che il sequestro Mazzotti fu organizzato dalla ‘ndrangheta, con la collaborazione di lombardi delinquenti e stupidi. I condannati nei processi precedenti, componenti di questa banda di balordi locali, si erano invece rifiutati di rivelare la gestione del sequestro da parte della criminalità organizzata calabrese. Ora si attende la sentenza per settembre. Bisogna però anche risalire ai mandanti del crimine che costò la vita a Cristina, imprigionata in una buca con soli cinque centimetri d’aria, drogata massicciamente con il valium, lasciata morire per incuria e disumanità, gettata come un rifiuto.

C’è un altro aspetto su cui bisogna indagare, giusto?

Certamente. Dove sono finiti i soldi del riscatto (un miliardo e cinquanta milioni di vecchie lire, pari a cinque milioni e mezzo di oggi, ndr) pagato dalla famiglia? Ne sono stati recuperati solo settanta milioni. Un altro filone da chiudere per fare giustizia per Cristina.

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