La giovinezza di Brasillach: dolorosa illusione

Un’analisi del romanzo “Il tempo che fugge” riproposto in edizione limitata da Settecolori. L’estetica della vita passa da uno sguardo immaturo

É proprio vero che siamo dentro un “discorso” e tutto rimanda a tutto, come diceva Borges nei suoi studi danteschi. La lettura del capolavoro narrativo di Robert Brasillach, il romanzo “Il tempo che fugge”, riproposto da Settecolori (ma la definizione “romanzo” è riduttiva, perché si tratta piuttosto di una raffinatissima partitura musicale sul tema del destino e il passare del tempo), riporta alla mente alcune considerazioni svolte da Ennio Flaiano nell’abbozzo per la sceneggiatura del film “Il bambino cattivo”, poi mai realizzato.

Ritorno al passato

É un testo direttamente autobiografico, che descrive un periodo piuttosto burrascoso trascorso in affido dallo stesso Flaiano presso una famiglia di Brescia all’età di undici anni, nel 1921. Recuperando lontani ma ancora vividi ricordi, Flaiano ha osservato molto giustamente che l’infanzia e la giovinezza, intesa come condizione dell’anima e dimensione prelogica, non ancora intaccata dall’arida razionalità e concretezza della vita adulta, è «l’unico luogo che non riusciamo ad abbandonare»: un luogo dove torniamo continuamente – in maniera più o meno consapevole – e che ad ogni modo non smettiamo di cercare e ricreare, come un paradiso perduto.

Lo stesso Flaiano, in un altro suo scritto, ha ribadito e ampliato il concetto, affermando che le cinque o sei cose decisive dell’esistenza si svolgono prevalentemente in quel periodo, e che in ultima analisi tutto quanto viene “dopo” serve soltanto a “fare volume” e fornire la falsa quanto consolante convinzione che le infinite casualità occorrenze e contingenze di una vita si uniscano a comporre un percorso biografico coerente e lineare. René e Florence, i due protagonisti di “Il tempo che fugge” (ma anche in questo caso il termine è riduttivo, perché sono piuttosto figure simboliche, proiezioni immaginative, archetipi) costituiscono una sostanziale conferma delle considerazioni di Flaiano, come opportunamente sottolineato da Riccardo Paradisi nella postfazione al volume.

Nel romanzo, infatti, ci sono «l’avvento dell’età adulta e i vent’anni che fuggono come in un tramonto di settembre destinato ad avvolgere tutta la vita», ci sono il «senso di rivolta nel sopraggiunto grigiore della routine e dei balli in maschera dell’età adulta», ma la melodia di sottofondo rimane la giovinezza: «Nessuno ha saputo cogliere meglio di Brasillach l’essenza e il sapore di questa stagione della vita a cui si resta sempre legati, alla cui fine non ci si rassegna mai».

Oltre il “tempo perduto”

Verrebbe ovviamente da pensare a Proust e al “temps perdu”, eppure Brasillach si situa in una dimensione solo apparentemente contigua, ma in realtà molto distante, perfino antitetica. Proust è lo scrittore del divenire, delle cose che passano, si perdono e si vorrebbero ritrovare, mentre il Brasillach di “Il tempo che fugge” è lo scrittore del tempo che non è tempo ma piuttosto un continuo differimento, una durata illusoria, un’immagine mobile dell’eternità, un’esistenza/sostanza che va oltre l’accidente biologico del nascere vivere e morire. Ma non solo: Proust è l’emozione risolta nelle screziature della memoria e nelle “intermittenze del cuore”, mentre Brasillach è la parola che si fa essa stessa emozione e dice la verità della vita oltre la “verità” apparente e menzognera dei fenomeni, oltre la banalità del tempo che passa e non va da nessuna parte.

Un lettore di spiccata sensibilità come Stenio Solinas ha sottolineato le differenze in una maniera molto concisa e penetrante, cogliendo tra l’altro il nucleo più profondo della particolarissima poetica di Brasillach: «Il tempo perduto è per Proust tale perché non c’è più, l’unico modo per riafferrarlo è dato da avvenimenti casuali. Brasillach, al contrario, vive nel tempo, e la memoria gli serve per dare al tempo un senso, per non farlo scaturire solo da semplici sensazioni». É precisamente per questo motivo – sembra un paradosso, ma non lo è – che “Il tempo che fugge” si presenta come un romanzo sul tempo nel quale il tempo non esiste, più ancora un romanzo sulla giovinezza nel quale la giovinezza è piuttosto una concezione della realtà, uno stato della mente, un’estetica della vita che è anche un’etica, quasi una forma della conoscenza.

Il clamoroso abbaglio ideologico di Brasillach, che vide nel fascismo una nuova giovinezza dell’umanità e l’aurora di una nuova epoca, pagandone le conseguenze ben oltre le oggettive responsabilità, va inquadrato all’interno di una simile prospettiva: oltre la vergognosa quanto ipocrita “damnatio memoriae” che lo ha colpito, e senza inutili settarismi. Una cosa è comunque certa: la sua condanna a morte per “intelligenza con il nemico”, in un clima di regolamento dei conti e caccia alle streghe, nonché il rifiuto della grazia da parte del Generale De Gaulle, costituiscono pagine e momenti non propriamente gloriosi della storia francese del secolo scorso.

Aspettando la sera

La trama del romanzo è talmente scarna da far pensare al “livre sur rien” favoleggiato da Flaubert: René e Florence, entrambi orfani, trascorrono insieme la prima giovinezza su un’isola delle Baleari che ai loro occhi è come il paradiso terrestre. A distanza di anni, si ritrovano a Parigi, si innamorano, si sposano, mettono al mondo un figlio, varcano la linea d’ombra che separa la giovinezza dall’età adulta, vengono sopraffatti dalla routine, dalla noia, dalla cascaggine, dalla carnevalata della vita sociale. Infine si separano, René prende parte alla prima guerra mondiale e Florence alleva da sola il figlio, in una costante sensazione di rimpianto e attesa.

Quando si ritrovano, quattordici anni dopo, hanno la certezza definitiva di essere l’uno il destino dell’altra e si dispongono ad «aspettare con tranquillità la sera». Ma sulle loro vite gravano la polvere delle illusioni perdute, la troppa morte che ciascuno dei due porta dentro di sé, «le alluvioni che gli anni hanno deposto sul loro volto e sul loro corpo»: è difficile dire se si tratta o meno di un lieto fine.

Il tutto, sullo sfondo dei primi tre decenni del Novecento, che Brasillach dipinge con meravigliose pennellate e restituisce in virtù di un dettato di straordinario impatto emotivo. Otto decenni dopo quel nefasto 6 febbraio 1945, quando venne fucilato nel cortile del forte di Montrouge ad Arcueil, è davvero giunto il momento di mettere da parte la falsa immagine del “martire dell’idea” per riscoprire il vero Brasillach, il narratore puro, il pensatore rigoroso anche se controverso, il ricercatore inquieto e non privo di tratti profetici: forse tra i più grandi del primo Novecento, sicuramente tra i più attuali.

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