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Lunedì 01 Aprile 2024
La Montagna di Mann è davvero“magica”
Letteratura L’edizione per il centenario, inserita nei Meridiani, sancisce l’abbandono dell’aggettivo “incantata”. La corretta traduzione di “Der Zauberberg” accantona il titolo che per 80 anni ha accompagnato la versione italiana
L’attuale denominazione è “Berghotel Schatzalp”, che lascia intuire il pregio e la bellezza del luogo (“Schatzalp” si può tradurre pressappoco con “Alpe preziosa”). Si tratta di un albergo molto lussuoso dell’esclusiva località di Davos in Svizzera, nel Canton Grigioni, e ospita una volta all’anno, nel mese di gennaio, i portatori più o meno sani di nuove affezioni che poi si trasmettono all’intera umanità.
Un secolo fa, invece, si chiamava “Berghof” ed era un sanatorio dove venivano curate la tubercolosi e altre affezioni che partendo dai polmoni andavano a interessare l’intero organismo. Nel corso di questi cento anni, indipendentemente dalla sua attuale funzione, l’ex sanatorio ha cessato di essere uno specifico edificio situato in un preciso luogo geografico e si è elevato al rango di condizione della mente e coordinata esistenziale. Perché le affezioni polmonari curate al “Berghof” erano il simbolo e la concretissima metafora della malattia che stava divorando un’intera civiltà.
Documento psicologico
Il merito è tutto da ascriversi alla straordinaria reinvenzione operata da Thomas Mann ne “La montagna incantata”, che proprio in questo periodo compie cento anni e viene riproposto anche in versione italiana in un volume dei “Meridiani” Mondadori che riprende la traduzione già uscita nel 2010 nella medesima collana, con l’aggiunta de “La morte a Venezia” (scelta giustissima, perché le due opere, per quanto di opposta ambientazione, sono perfettamente speculari e si spiegano a vicenda).
L’elusivo e fintamente modesto Thomas Mann - che amava riproporre in infinite variazioni il motto francese “Possible que j’ai eu tant d’esprit?” - ha fornito spesso, più o meno volutamente, giudizi fuorvianti sulla propria opera, ma nel caso de “La montagna incantata” ha consegnato nelle mani dei lettori la giusta chiave d’accesso. Lo ha fatto nel 1939, durante l’esilio negli Stati Uniti, in una celebre lezione tenuta al cospetto degli studenti dell’Università di Princeton, quando ha affermato: «I posteri vi scorgeranno probabilmente un documento della psicologia europea e dei problemi spirituali nei primi trent’anni del ventesimo secolo».
Ma la “montagna” è “incantata” oppure “magica”? La riedizione del volume dei “Meridiani” in occasione di questo anniversario tondo ripropone la questione del titolo, che non è un semplice passatempo accademico e merita anzi di essere affrontata e chiarita una volta per tutte.
Una premessa è d’obbligo: per i lettori italofoni, soprattutto per chi ha trovato nelle pagine di questo libro gli spunti e le suggestioni fondamentali della propria educazione da adulto, il titolo “La montagna incantata” è un’espressione ormai entrata nell’uso comune.
Storia di un titolo
Il problema è che la traduzione, per quanto molto evocativa, è sbagliata, perché il titolo originale “Der Zauberberg” significa letteralmente “La montagna magica”, esattamente come “Die Zauberflöte” di Mozart non è “Il flauto incantato”, ma piuttosto -e giustamente- “Il flauto magico”. L’errore - se di “errore” in senso proprio si può parlare - ha una sua storia ed è facilmente ricostruibile. Nella prima recensione apparsa in Italia, pochi mesi dopo l’uscita del romanzo in lingua originale, la germanista e traduttrice Lavinia Mazzucchetti, che poi avrebbe meritoriamente curato le opere complete di Mann per Mondadori, tradusse il titolo con “La montagna incantata”. Sette anni dopo, quando uscì la prima traduzione, scorciata in maniera infame dalla censura fascista e curata da Bice Giachetti-Sorteni per l’editrice Modernissima, la scelta cadde sul titolo proposto dalla Mazzucchetti.
Lo stesso accadde a distanza di tre decenni, quando il romanzo venne integralmente tradotto da Ervino Pocar per l’edizione pubblicata da Mondadori nel 1965 e poi ripresa da Corbaccio: il titolo “La montagna incantata” era ormai acquisito e venne conservato, anche se il traduttore tentò vanamente di proporre all’editore “La montagna magica”.
La versione più recente, curata da Luca Crescenzi e Renata Colorni e riproposta in occasione del centenario, ha emendato l’errore e ha tradotto correttamente “Der Zauberberg” con “La montagna magica”, confinando nella soffitta delle rimembranze (ma più ancora della nostalgia) il titolo che per ottant’anni ha contrassegnato in area italofona la presenza del capolavoro di Mann.
Una vicina fatalità
“La montagna magica”, iniziata prima dello scoppio della Grande guerra come variazione parodistica sul tema de “La morte a Venezia” e portata a termine negli anni immediatamente successivi la fine del conflitto, è un condensato di tutte le antitesi e le laceranti contraddizioni del Novecento, oltre che il canto d’addio di una civiltà al tramonto.
L’inarrivabile grandezza del romanzo, che un secolo dopo si è arricchita di infinite screziature, consiste principalmente nella capacità di tenere insieme gli opposti in virtù del principio compositivo del leitmotiv e di una reinvenzione letteraria di assoluta perfezione, addirittura superiore a quella operata circa un quarto di secolo prima nello stupefacente esordio dei “Buddenbrook”, pubblicato a soli venticinque anni.
Lo stesso Mann, che suggeriva giustamente di leggere il romanzo almeno due volte per coglierne tutti i rimandi e le simbologie, ne ha fornito un’interpretazione di rara precisione ed esattezza: «L’eroe è solo in apparenza l’affabile giovanotto Hans Castorp. È piuttosto l’uomo stesso con i suoi interrogativi su di sé, sulla sua provenienza e la sua destinazione, il suo essere e il suo fine, la sua posizione nell’universo, il mistero della sua esistenza, l’eterno enigma dell’umanità». Un secolo dopo, la “magia” che promana dal “Berghof” assomiglia sempre più a una fatalità che ci riguarda molto da vicino. E che non smette di turbare le nostre coscienze, ormai irrimediabilmente ammaccate e vulnerabili.
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