La pancia piena... almeno a Natale

Saggio storico Emilio Magni fa rivivere in questo racconto la festa più bella dell’anno come era celebrata dai contadini brianzoli

Nel vecchio, perduto, ruvido mondo contadino, del quale abbiamo solo bei ricordi lontani, il Natale, la festa più bella dell’anno, era vissuta e celebrata con una felice e disinvolta coincidenza di sacro e di profano. La assai devota e sincera adorazione del “Bamben” che stava tornando sulla Terra, si accompagnava a una gaudente atmosfera festosa, forse un po’ eccessiva. Questa era infatti accompagnata da tante, chiamiamole, innocenti trasgressioni, o veniali peccati di gola ai quali si immergevano disinvoltamente tutti, dal vecchi, ai giovani, uomini e donne: un popolo povero diventato di colpo insaziabile ghiottone anche se per un sol giorno. Con il famoso pranzo di Natale i “paisan” brianzoli, lariani, meneghini avevano già coniata la parola gergale “pacciada” molto prima di Gianni Brera. E che “pacciada”!

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Osservate rigorosamente tutte le pratiche religiose, cominciando dalla liturgia della novena di Natale, le famiglie unite la sera della vigilia erano tutte in chiesa, dove, con il parroco, intonavano l’immancabile: “Tu scendi dalle stelle o Re del cielo e vieni in una grotta, al freddo e al gelo…”. Non si poteva mancare alla Santa Messa di mezzanotte con la comunione. L’adunata liturgica interrompeva l’altro sacrosanto rito, laico però, della grande famiglia patriarcale: la busecca della vigilia. La “resgiura” al posto di comando, già dal mattino della vigilia coinvolgeva figlie e nipoti nella preparazione del tradizionale “busecchin de Nadal”. La busecca si aggiungeva però alla grassa pianificazione in anticipo della grande e debordante quantità di pietanze e intingoli, nonché dolciumi, del pranzo di Natale, simposio che doveva essere davvero ricco di “ogni ben di Dio”. Avrebbe infatti veleggiato ben oltre la sazietà.

Osservata dal lato profano la grande festa di Natale era per il contadino l’occasione buona per dimenticare tutte le privazioni, qualche volta anche la fame vera, insieme all’ossessione di risparmiare qualche soldo per il futuro dei figli, ambasce vissute e consumate praticamente tutto l’anno, assieme ai sudori, alle fatiche provate sui campi (i “loeuch”), con i piedi nudi nelle zolle umide, oppure con il “solleone” che imperversava sulla nuca, o ancora dentro la puzza delle stalle per la mungitura e per “regulà i besti”, ovvero portare via il letame, preparare il “letto” alle vacche e fornire loro il fieno da ruminare: tutti i giorni, mattino e sera, compresa la domenica.

Me lo ricordo mio nonno Richén, saggio contadino brianzolo, il quale già qualche settimana prima di Natale commentava con il sorriso sul suo volto pieno di serenità e di ottimismo: «È scià Nadal e anca quest’ann sarà la volta de tra via la miseria». Ecco quindi che il Natale era la volta buona per “dare una pedata” all’indigenza, alla povertà, alla fame che avevano accompagnato l’esistenza per tutto l’anno e “darci dentro” con l’abbondanza in cucina, come nelle case dei ricchi. O addirittura una ribellione gastronomica più ricca di quella dei “sciuri”, che i “paisan” ammiravano e invidiavano al tempo stesso. Qualche volta però addirittura odiavano. Era il caso del Richén il quale, pur essendo possidente di qualche terreno, per mandare avanti la baracca doveva prendere, per così dire, in affitto i campi di proprietà di un nobile e assai ricco casato che dimorava in una grande villa sulla collina da cui si dominava la distesa dei campi coltivati. In realtà il contratto era del tipo a mezzadria, ovvero “el paisan” doveva consegnare al “padron” una parte dei prodotti coltivati. Qualche volta, anzi spesso, le stagioni erano state ostili, la pioggia scarsa, oppure la grandine aveva infierito e quindi il raccolto era stato misero, poco. Ma l’avido conte proprietario di tante terre, pretendeva tutto quanto era stato stabilito, non faceva mai sconti.

Commentava sconsolato Richén. «El cunt e me strangùla, ma se el me ven a tir el strozzi me, cui mè man». Fortunatamente il nobiluomo si guardò bene di “venire a tiro”, mandava il fattore a riscuotere. E il fattore qualche rischio lo ha corso davvero. Il nonno in fondo però era contadino molto saggio e conosceva le leggi, non andava mai oltre le minacce. Tutte queste ambasce però erano dimenticate quando l’atmosfera del Natale cominciava ad avvolgere la cascina, e come le nebbie d’autunno spandersi nei campi a riposo e a infilarsi nel tepore della stalla riscaldata dal fiato delle vacche.

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L’aria di Natale cominciava qualche tempo prima quando alla cascina giungeva il curato per la benedizione natalizia, come voleva il rito ambrosiano. Richén prima di far benedire il focolare domestico e il desco dove si consumavano i frugali pasti, portava il prete a santificare la stalla e poi il maiale. “El purcell” era in quello che i contadini chiamavano “el stabièll”, il suo stretto recinto. La benedizione del “purcell” era particolare, ripetuta un paio di volte, perché il porco era, in un certo senso, un animale sacro, votato alla profana sacralità dell’abbondanza, proprio quella realtà godereccia che era una delle chiavi per “tra via la miseria”.

Dare una pedata alla fame. Era così che una volta macellato “el purcell” le parti migliori erano portate al salumiere e al macellaio,(al droghiere si vendevano patate e legumi) che le acquistavano a poco prezzo e in cambio fornivano anche bei tagli di carne bovina, poi altre lussi culinari natalizi, come la mostarda, il torrone, i mandarini, qualche bottiglia di vino buono che, almeno per il pranzo natalizio sostituiva l’acido e povero “Nustranel”, fatto con l’uva dei “loeuch”. Capriccio del “Richén”, apprezzato dai figli era il manzo bollito che , assieme ad arrosti, e altri grassi intingoli era il re della tavola natalizia, ovviamente accompagnato da abbondanti cucchiaiate di mostarda. Il macellaio gli metteva da parte tagli pregiati come lo scamone, o la noce, la polpa. Qualche volta Richén si accontentava però anche del biancostato. Era un rito del mattino del Natale la cottura del lesso che era costantemente curato dalla “resgiura” o da qualcuna delle figlie.

Assieme al lesso di carne bovina, imperavano sulla tavola le carni degli animali allevati in casa, in primo piano il cappone e il tacchino.

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Nella cascina San Giuseppe il colorato, straripante e profano rito culinario che emanava profumi invitanti, cominciò la mattina della vigilia. Per prima cosa si accesero i fuochi che erano diversi, oltre a quello del grande camino. Nella cucina era stata approntata anche una stufa con tre vampe, mentre nel cortile si alzavano “treppiedi” sopra i bracieri. La tradizione della vigilia era la “busecca” che cominciava a cuocere il mattino, in varie pentole, appese ai “treppiedi”. La”resgiura” Veronica aveva scambiato con il “cervelée” un sacchetto de “pomm de tera”, le patate, con lo stomaco del bue che aveva poi pulito con grande cura e tagliato rigorosamente a fettine. Ogni tanto la donna sollevava il coperchio delle pentole e vi aggiungeva del brodo di vegetali che aveva cucinato a parte.

Per tutto il pomeriggio della vigilia le due figlie di Richén e Veronica si dedicarono alla preparazione dei dolci che, il giorno dopo avrebbero accompagnato il panettone milanese che, come ogni anno era già giunto in regalo da un ricco parente meneghino. La torta regina era la famosa “Bertolda”, che dal Settecento era la gioia dei contadini lombardi.

Luigia e Angelina, le due figlie grandi, sposate, dopo essersi confessate la mattina in chiesa, si dedicavano alla “Bertolda” anima e corpo, impiegando farina gialla di “furmenton”, farina bianca, il lievito, burro zucchero, uova e altre delizie. Ponendola poi nel forno dentro una pentola con il buco in mezzo in modo che la torta uscisse in forma di ciambella. Assieme alla “Bertolda”, le donne si dedicavano anche ad altre torte con fettine pere, la farina gialla, le nocciole tritate, marmellata. Tutti questi ingredienti erano stati acquistati giorni prima dal droghiere che faceva anche da pasticciere. Luigia e Angelina aveva risparmiato tutto l’anno per avere qualche soldo in più a disposizione per il Natale.

Il “resgiù” invece pensava al vino che aveva avuto dal droghiere, in cambio di lonza di maiale, dopo un’estenuante “tira e molla” mercantile. Aveva scelto un bel Manduria e uno Squinzano le cui bottiglie già erano state messe sopra il camino per avere il giorno dopo la giusta temperatura.

La sera prima della Messa di mezzanotte si infilarono tra i seducenti profumi che si spandevano dalle pentole sui fuochi, alcuni amici dei figli i quali portarono bottiglie di vino di mele, “ el vin de pomm”, per le donne.

Richèn li invitò ad “attavolarsi” al grande legno di noce lucido che come un monumento riempiva di gloria la cucina piena di fumo e di odori buoni. Tutti quanti, il patriarca, sua moglie, le figlie, i figli, le nuore, i generi, i ragazzi e gli amici, ci “diedero dentro” con la “busecca”, tanto che quando, finalmente si avviarono a Messa ormai il grande pentolone e quasi vuoto.

Prima dell’assaggio della trippa, la “busecca” i vecchi, resgiù e resgiura avevano fatto il bagno, un rito immancabile che era per così dire celebrato solo una volta all’anno (qualche volta però anche a Pasqua). Dopo che le figlie avevano compiuto un lungo saliscendi sulle scale portando alle stanza “di vècc”, pentoloni di acqua bollente scaldata sulla stufa.Dopo i “busecc” andarono tutti alla messa di mezzanotte. Le donne fecero anche la comunione. Richèn invece rimase in fondo alla chiesa. Era un credente particolare. Le preghiere se le aveva scritte da solo. Diceva che così il contatto con «Quel lassoeù» era più diretto.

Quando tornarono dalla chiesa, la prima cosa che fece la Veronica fu di prendere la statuetta del “Bamben” e posarla nella culla del presepio che aveva già da giorni allestito vicino al camino.

Il mattino di Natale la “mamm” e le figlie si erano alzate prima di tutti per preparare il ripieno da infilare nei capponi lessi e arrostiti. Il ripieno era un’arte. Ognuno aveva la sua ricetta. Quello usato dalla resgiura era tritato di carne di maiale, in particolare di lombo, castagne lesse, pane tritato, uova al naturale (bianco e rosso), prezzemolo, aglio, formaggio di grana grattugiato, pinoli, uvetta, e naturalmente sale e un po’ di pepe. La cosa più importante era «abbundà con la carne del purcèll». La Luigia però ci mise anche un po’ di amaretto sbriciolato.

Con i capponi e le galline nelle pentole vennro infilati alcuni pezzi di testa di manzo, i “gerett”, e i “ginocc”. Tutto questo per fare un buon brodo per il risolto, “el risott giald” con lo zafferano, con il quale nel pomeriggio si sarebbe aperto il pranzo dopo i molti antipasti. Intanto su un fuoco bolliva anche il lesso del manzo, mentre Richén andò in cantina a prendere le bottiglie di vino buono e la mostarda. Per le donne invece portò il vino di mele.

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La liturgia profana del pranzo di Natale iniziò verso le tre del pomeriggio, quando, come diceva “el resgiù”, le luci cominciavano a calare. Mentre le carni cuocevano, o rosolavano immerse in condimenti esuberanti spargendo nell’aria un aroma da far resuscitare un morto, le donne, sempre sotto l’attenta sorveglianza del “resgiù”, si adoperavano per preparare di mettersi a tavola la “mamm” pretese la preghiera. Tutti erano in piedi a recitare l’orazione del ringraziamento.

Si cominciò con salumi saporiti, capaci di svegliare l’appetito, come diceva il vecchio. C’erano salame cotto caldo ed affettato al momento, poi c’erano della pancetta e del lardo. Iniziarono le libagioni. Poi si passò al risotto. Quindi arrivarono i lessi e agli arrosti. I ragazzi sembravano immergere la testa nel piatto per divorare i pezzi di testa di manzo, per succhiare il “gerett”. Si consumò anche qualche disputa tra i ragazzi: tutti volevano la coscia del cappone. Graditissimi furono i ripieni.

Quando giunse l’immancabile panettone, ormai tutti erano allo stremo, vinti dai sapori e soprattutto dalle bevute. “El ven di pomm” provocò molti danni. Le donne salirono nelle camere a dormire. Le cugine Virginia Giulia si nascosero nell’orto con il cugino di Como. Nessuno fece caso al “gurlett” di uva americana appositamente conservato, le coloratissime mele “restelett”, le nocciole, le noci. Questa “roba” sarebbe stata buona il giorno dopo, assieme al torrone.

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