Le feste di un tempo passato. Amore, nostalgia e racconti

Un’analisi intima e personale di Gian Paolo Serino su tutti gli aspetti del periodo natalizio . «Non avevamo bisogno di andare in Duomo a farci vedere. Le preghiere erano Dio in silenzio»

È Natale... Natale e se non abbiamo fede... la fede è in noi. È questo il mistero della nascita che, per paura o meglio per non interrogarci sul miracolo della vita, del credere che c’è qualcosa più grande di noi, cerchiamo di dimenticare o ridurre a statuine che prima era bello fossero un presepio.

Adesso sono alberi, cene, pranzi, tartine, regali, i consigli degli chef alla tivù dopo le parole del Papa, dopo la Santa Messa di mezzanotte che da piccolo aspettavo come una gioia che era felicità perché non lo sapevo ancora che niente è sbagliato se ti rende felice. Mi riempivo il cuore, facevo il chierichetto, ricordo la cotta, il turibolo, il coro. Non avevamo bisogno di andare in Duomo, eravamo a San Bartolomeo. Mio padre come mia madre e mia sorella erano dell’Opus Dei. Non avevano bisogno di passerelle o di farsi vedere. Le loro preghiere erano Dio in parola, pensiero, azione, in silenzio.

Famiglia

Un giorno di giugno mio padre bussò alla porta di casa. Era buono mio padre tanto che non l’ho mai chiamato papà. Era padre. Di tutti noi. Aprii e mi sputò in faccia. Sei mesi e lui che aveva sempre usato la testa se ne andò con la cattiveria che premeva il suo cervello.

Non beveva, non fumava, era vegetariano. Padre con il Tuo esempio mi hai fatto capire che Gesù bambino non esiste in statuina ma è dentro di me, anzi di noi. Perché ci sei ancora, non ti ho scordato mai anche se le mie mani corrono ancora in mezzo ai guai.

Da dieci anni ogni Natale lo passavamo con una famiglia di amici. Subito dopo, l’anno seguente, non li sentimmo più. Non c’eri più tu, che aiutavi tutti, e quindi noi non esistevamo. Quindi perché stare con noi?

Con mia madre, telefono muto, non ne abbiamo mai parlato tanto il dolore di una assenza apparecchiata per cena. Come fai a non credere alla notte di Natale? Ho abbandonato l’abito di chierichetto, senza rumore. Ancora sento il profumo di ceri, grandi, benedetti e riecheggiare il coro nella mia mente.

Adesso che sono un critico letterario uno scrittore che tutti incensano mi manca l’incenso. Mi manca il mio papà. E allora è vero che la cosa più triste è alzarsi la mattina di Natale e accorgersi di non essere più un bambino. Mi manca scartare i regali, perché padre, pur in un grande appartamento avevi fatto creare apposta un camino a legna: tornavamo e correndo il parquet iroko, quello per le barche, scricchiolava faceva rumore. Io volevo la pista per le automobiline e a mio padre regalavo un biglietto “buon Natale”. Così, basta. Solo una volta, l’ultima, non lo sapevo ma ti ho regalato un maglione a V di cashmere. Non hai mai avuto tempo di metterlo. Io neanche. Sono 30 anni che lo tengo nella cabina armadio, come se indossandolo violassi una legge, come se fosse tuo e piegato bene ti aspettasse per tornare a prenderlo.

Ho atteso anni e poi... poi sono andato via anche da me stesso. Perché non era dolore, ma erano coltelli caduti dal cielo.

Mi fanno male, sempre. Dove sei bambin Gesù. Ho creduto per anni di consolarmi in questo racconto di Friedrich Dürrenmatt. In poche righe, tutto: «Era Natale. Attraversavo la vasta pianura. La neve era come vetro. Faceva freddo. L’aria era morta. Non un movimento, non un suono. L’orizzonte era circolare. Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole. Gridai. Non mi udii. Gridai ancora. Vidi un corpo disteso sulla neve. Era Gesù Bambino. Bianche e rigide le membra. L’aureola un giallo disco gelato. Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l’aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso. Marzapane stantio».

Quante volte ho sbagliato ho fatto finta che... Poi ho capito. Tardi. Ma non è facile. Ho avuto un frontale con la vita e ne sono rimasto miracolosamente illuso. Illeso no, mai. Non ne esce nessuno. Ma illuso si perché ho superato gli anni in cui non potevo mangiare il gelato, perché era buono ma io ne sentivo solo il gelo.

Roncoroni e Longatti

Poi sono qui, a nascondere quello che sono con quello che faccio, scrivo. E di questo devo ringraziare due persone, che ho sempre letto qui. I racconti di Natale di Federico Roncoroni: racconti che ogni vigilia leggevano tutti, una carezza su un passato che diventava un bacio che è un fiocco di neve. E Alberto Longatti, che era come un fuoco nel gelo. A ricordare che la provincia non è negativa perché ci si abbraccia tutti come una famiglia.

Ci ho messo tanto a capirlo. Ma grazie, Alberto. Il regalo più bello. Soprattutto adesso che a Natale sono solo e stacco il citofono come se qualcuno dovesse suonarmi. Non abito più in provincia, ma nel centro del centro di Milano, in Brera, via Solferino. Ho il parquet, all’ultimo piano. Gli alberi in giardino, 21 mila libri. Eppure vorrei di nuovo quel profumo di incenso. Non per tornare piccolo, ma per essere di nuovo grande di fronte a Dio, al camino, a mio padre, a me stesso. Mi dicono che ci sono riuscito, ma non è vero.

Ho appena riletto i racconti di Alberto e Federico. Forse non stacco il citofono. Ho scritto una lettera a mio padre. «Mi hai dato il regalo più grande che qualcuno possa dare a un’altra persona: hai creduto in me».

Non ho il camino ma il parquet scricchiola. Sono solo, ma non è vero. Scrivo. E sono con voi, con Alberto, con Federico. E presto, lo so, ci aspetteranno nuovi racconti.

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