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Domenica 16 Marzo 2025
Le tracce di Emma con il “precursore” di Flaubert
Il testo “L’orgia perpetua” di Vargas Llosa raccoglie una serie di saggi critici sulla protagonista di “Madame Bovary”, tra aspirazioni e illusioni
Tutti i grandi scrittori hanno bisogno di “precursori”, ha detto un grande scrittore come Jorge Luis Borges: si tratta di una regola alla quale non si è sottratto Mario Vargas Llosa, che ha avuto la fortuna di trovare il “precursore” già in giovane età.
È lo stesso Vargas Llosa a raccontarlo nelle prime pagine de “L’orgia perpetua”, una raccolta di saggi critici – ma forse sarebbe più corretto parlare di un’autobiografia obliqua – dedicata a Gustave Flaubert e “Madame Bovary”, che secondo il grande scrittore peruviano è il “romanzo dei romanzi”, perché contiene tutto l’animo umano: le sue aspirazioni e illusioni, ma anche le sue miserie e il suo eterno e irredimibile cuore di tenebra.
Evitare la vita
Come ha scritto giustamente un “flaubertien” del rango di Julian Barnes, autore tra l’altro de “Il pappagallo di Flaubert”, un libro che ha molte affinità con “L’orgia perpetua”, l’omaggio di Vargas Llosa a Flaubert si presenta come «non convenzionale, luminosamente intelligente e ferocemente sensuale.
È il miglior racconto di un romanzo che io conosca». Merita una spiegazione il titolo, che prende spunto da un passo contenuto in una lettera del saturnino Flaubert a un’amica e corrispondente, Marie-Sophie Leroyer de Chantepie. La lettera è datata 4 settembre 1858, poco meno di due anni dopo la pubblicazione di “Madame Bovary”, e il passo in questione ha tutti i crismi del programma poetico ed esistenziale, che in Flaubert sono la stessa cosa: «Il solo modo di sopportare l’esistenza consiste nello stordirsi con la letteratura, come in un’orgia perpetua». È la medesima convinzione che Flaubert aveva espresso alcuni anni prima in una lettera all’odiamata Louise Colet, senza nemmeno ricorrere a metafore: «C’è un solo modo di tollerare la vita: evitarla».
Non sempre, tuttavia, i “precursori” si rivelano tali fin dal primo incontro. Il contatto iniziale tra il giovane Vargas Llosa e il capolavoro di Flaubert fu infatti piuttosto deludente: «Il primo ricordo che ho di “Madame Bovary” – racconta Vargas Llosa – è cinematografico. Era il 1952, una rovente serata estiva, un cinema appena inaugurato nella Plaza de Armas: James Mason compariva nei panni di Flaubert, Rodolphe Boulanger era lo slanciato Louis Jourdain e Emma Bovary prendeva corpo nelle espressioni e nei movimenti nervosi di Jennifer Jones. L’impressione non dovette essere grandiosa perché il film non mi spinse a procurarmi il libro, nonostante, proprio in quel periodo, avessi cominciato a leggere romanzi in modo insonne e cannibalesco».
Esperienza fondamentale
L’incontro veramente decisivo – dopo un altro contatto molto interlocutorio all’Università di Lima, nel 1956, in occasione del centenario della pubblicazione del romanzo – fu il terzo, che si verificò a Parigi, nell’estate del 1959, quando il ventitreenne Vargas Llosa arrivò nella capitale francese con poco denaro in tasca e la vaga promessa di una borsa di studio. Il giovane forestiero entrò in una libreria del Quartiere latino e acquistò una copia di “Madame Bovary” nella storica collana dei “Classiques Garnier”, poi tornò nella sua camera dell’Hotel Wetter, non lontano dal Museo Cluny, e cominciò a leggere.
Vargas Llosa ha raccontato in questi termini l’esperienza di lettura che gli ha cambiato la vita: «È lì che comincia davvero la mia storia. Fin dalle prime righe il potere di persuasione del libro agì su di me in modo fulminante, come un incantesimo potentissimo. Era da anni che nessun romanzo vampirizzava così rapidamente la mia attenzione, aboliva lo spazio fisico e mi sommergeva tanto a fondo nella sua materia. Man mano che avanzava la sera, scendeva il buio, faceva capolino l’alba, sortiva sempre più il suo effetto l’effluvio magico, la sostituzione del mondo reale con quello fittizio». Fu in quel momento che Vargas Llosa trovò il “precursore” e comprese due cose fondamentali, a mezza via tra la vocazione e il destino: in primo luogo, «quale scrittore mi sarebbe piaciuto essere», e poi la consapevolezza che «fino alla morte avrei vissuto innamorato di Emma Bovary». Erano cominciate la sua “orgia perpetua” col “romanzo dei romanzi” e la sua carriera come narratore: il suo primo romanzo, “La città e i cani”, uscirà infatti quattro anni dopo.
Il suo libro “flaubertiano” si presta a molteplici approcci e chiavi di lettura: in sostanza è una raccolta di saggi di critica letteraria, filologicamente ineccepibili ma privi di sterili accademismi, più in generale è l’omaggio di un grande scrittore al maestro di tutti i grandi scrittori della modernità e quindi al “precursore” per eccellenza. L’immagine dell’“orgia perpetua”, in questo senso, è molto indovinata, perché Vargas Llosa la utilizza come un reagente chimico che permette di avvertire in maniera particolarmente intensa il potere magico che hanno certi romanzi, il piacere e lo straniamento che provocano nei lettori, non da ultimo la loro quasi paradossale funzione di antidoto contro un certo male di vivere (Vargas Llosa si sofferma su quest’ultimo aspetto nelle pagine più scopertamente autobiografiche).
Oltre il “bovarismo”
Tra i tanti meriti di questo omaggio al “precursore” Flaubert ce n’è uno, nello specifico, che nell’odierna Italietta della cultura/incultura – dove si segnalano lettrici/pitonesse che vedono nel romanzo un manifesto sessista e maschilista, nonché redattori editoriali che lo considerano un’opera di poco o punto valore – merita una decisa sottolineatura: la spiegazione della frase “Madame Bovary c’est moi” (incredibile a dirsi, ma c’è perfino chi sostiene che Flaubert non l’abbia mai pronunciata). Vargas Llosa la cita dagli atti del processo intentato a Flaubert per oltraggio alla morale e la situa opportunamente all’interno di una dimensione che nega e smentisce la frusta categoria del “bovarismo” (e per estensione del sessismo, maschilismo, patriarcato e corbellerie varie): «Senza dubbio vi è una chimera nel profondo del destino ambito da Emma. Ma Emma rappresenta e difende un lato dell’umano brutalmente negato da quasi tutte le religioni, filosofie e ideologie e da esse presentato come motivo di vergogna. La storia di Emma è una cieca, tenace, disperata ribellione contro la violenza sociale».
L’adulterio di provincia non ha quindi alcun significato, è solo un pretesto per esprimere una verità: Emma vuole semplicemente vivere, ma vivere è impossibile. Ecco il motivo per cui “Madame Bovary c’est moi”, o per meglio dire “Madame Bovary c’est nous”: perché a chiunque abbia occhi per vedere, come la povera Emma e il povero Gustave, la realtà appare troppo spesso come «un corridoio buio con in fondo una porta chiusa». Non ci vuole un (futuro) Premio Nobel come Mario Vargas Llosa per capirlo e spiegarlo. O forse sì.
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