Cultura e Spettacoli
Martedì 25 Ottobre 2022
«Mitra e fuoriserie. Noi, banditi a Milano»
L’incontro Santino “Tino” Stefanini è uno dei tre superstiti della banda della Comasina. Ha scontato 48 anni in carcere. «Rimpianti? Ovvio che sì, ma erano altri tempi. Il mio amico Vallanzasca è cambiato: oggi meriterebbe di uscire»
«Con le banche funzionava così: ne trovavi una che ti sembrava adatta, ben posizionata, magari all’angolo e magari senza metronotte... La sera precedente rubavi un’auto e al mattino con i tre, i quattro amici che avrebbero partecipato all’azione parcheggiavi i mezzi puliti a una certa distanza. Infine saltavi a bordo della macchina rubata e piombavi sull’obiettivo... Passamontagna abbassato, entravi di corsa... “Tutti fermi è una rapina... Buoni e bravi che non si fa male nessuno”... Scavalcavi, facevi aprire cassetti e cassaforte, arraffavi tutto, e poi via di corsa salutando... Grazie, arrivederci e buona giornata... Risalivi in auto, tornavi dove avevi lasciato le altre e abbandonavi quella del cambio... Capito?».
Un debito estinto
La Milano calibro 9 degli anni Settanta: proverbiale e straraccontata
Incontrare Santino “Tino” Stefanini nella sua ordinatissima casa milanese tra il Gallaratese e San Siro, è un po’ come rimettere in moto la macchina del tempo, ripiombando all’improvviso nella Milano calibro 9 degli anni Settanta. Proverbiale, straraccontata (recentissima è la serie Sky tv “La mala, banditi a Milano”), spremuta da ogni possibile scribacchino, quella città non smette però di accendere l’interesse di chi ancora abbia voglia di ascoltarla, forse per il fascino di questi suoi vecchi ragazzi sconfitti, di questi suoi reduci soffocati da rimorsi e rimpianti, cui si deve tutta la pietà che meritano i vinti, anche quando siano stati cattivi.
Del resto non si può dire che non abbia pagato, il Tino: 48 anni di carcere ha scontato, figlio di una bella barista di Affori, condannato per furti, rapine, un omicidio, un paio di evasioni, amico fraterno di Renato Vallanzasca e oggi finalmente detenuto ai domiciliari al quinto piano di una palazzina immersa nel verde dalla quale esce un paio d’ore al mattino, con il permesso del magistrato, per un po’ di spese e le sigarette, nonostante i rimbrotti del suo medico. «Asma bronchiale» dice lui, ma vabbè: «A smettere non ce la faccio».
Mamma lo guarda bionda, e sorridente e bellissima, da dentro una cornice posata sopra il televisore.
«Ho cominciato poco più che ragazzino»
«Ho cominciato da lì, poco più che ragazzino, dal bar che mia madre aveva preso in gestione ad Affori... Era frequentato da tanti poco di buono, gente che viveva di espedienti. Ho iniziato rubando le prime autoradio ancora adolescente, poi al minorile ho preso definitivamente la strada che pochi anni dopo mi avrebbe fatto incontrare gli amici con cui costituimmo la banda della Comasina, l’“impresa” che ci fece rimediare centinaia d’anni di carcere. Io ne ho scontati 48, e ancora non ho finito. È stata durissima, ma l’uomo è adattabile...».
«Si soffre, ci si chiude in se stessi, si sconta una vita piatta, difficile. Tanti amici, tanti miei compagni di detenzione sono impazziti, si sono persi dopo avere perso tutto. È difficile anche per chi resta fuori, per le famiglie... Io ho avuto sempre non più di sei ore di colloqui al mese, che significano tre giorni all’anno, tu qui e lei là, seduti entrambi a un tavolino l’uno di fronte all’altra. Era giusto che la mia prima moglie vivesse la sua vita, così lasciai che se ne andasse... Leggevo in questi giorni che solo quest’anno si sono già suicidati 68 detenuti, e ancora non siamo arrivati a Natale... Ai miei tempi era tutto diverso. Quando uno di noi, uno della banda veniva arrestato, chi rimaneva fuori si faceva carico della sua famiglia: soldi, vestiti, la spesa...».
Renato e il resto della banda
«Eravamo rapinatori. Rapinatori e basta»
Tino oggi è quasi libero. Quasi perché gli mancano ancora un paio d’anni. Ma è contento di avere avuto la possibilità di concludere questo suo interminabile percorso usufruendo degli arresti domiciliari. Dice: «Ho vissuto poco da uomo libero». Tutto in lui sa di carcere e malavita. La voce corrosa da milioni di sigarette, i tatuaggi sugli avambracci malamente cancellati con l’acido («all’inizio fa un po’ male ma poi passa»), i mustacchi anni Settanta, il piacere di chiacchierare sorseggiando un caffé che sa di libertà: «Eravamo rapinatori. Rapinatori e basta. Certo, abbiamo avuto i nostri guai con le bande rivali, ma erano guerre che non c’entravano niente con il nostro essere prima di tutto rapinatori. Ci piacevano i soldi, le belle auto, gli abiti confezionati su misura... A 21 anni giravo con Porsche, Fiat Dino, 124 coupé. Svaligiavo una banca e mi compravo un’auto. C’era chi si comprava la casa e chi rimetteva i soldi in filiale, salvo poi tornare a rapinarla quando fosse stata di nuovo bella piena».
«Sono i miei fratelli... fino al mio ultimo giorno di detenzione, nel marzo del 2020, abbiamo condiviso tutto»
Sorride: «Se fossimo andati a lavorare onestamente, con 200mila lire al mese di stipendio non avremmo potuto mai avere nulla...». I superstiti della generazione maledetta della Comasina sono tre: con Tino rimangono soltanto Osvaldo Monopoli – che oggi ha 78 anni ed è un uomo libero – e Renato Vallanzasca, classe 1950, quattro ergastoli e quasi trecento anni di carcere rimediati qua e là, fino al celebre tentativo di taccheggio di due paia di mutande che in un supermercato di Milano gli costò, nel 2014, l’ennesima condanna e, soprattutto, l’interruzione del percorso che di lì a pochi mesi lo avrebbe portato alla libertà condizionale: «Vallanzasca è in carcere a Bollate – racconta ancora Tino – Gliel’hanno fatta sporca, sporchissima. Lui mi ha giurato che non è vero, ma quand’anche lo fosse io non mi spiego come si possa tenere un uomo sette anni in galera per il furto di due paia di mutande. Per carità, è Vallanzasca, il nemico pubblico numero uno, ma davvero: sette anni sono un’enormità, soprattutto per un uomo che non è più lo stesso di una volta. È stanco, la memoria comincia a incepparsi, non è sempre lucidissimo, anzi, a volte si mostra anche tollerante, ed è incredibile per uno che ha avuto sempre un caratteraccio come il suo. Gli voglio bene? Certo che sì. Lui e l’Osvaldo sono i miei fratelli. Fino al mio ultimo giorno di detenzione, nel marzo del 2020, abbiamo condiviso tutto: la cella, i pranzi, le cene... Spero davvero che lo facciano uscire».
L’omicidio
«Sono ateo, non credo davvero a nulla, ma oggi so che la vita è una soltanto, e quando è finita è finita»
Qui fuori non è facile. Forse meno difficile, ma facile no. È tutto un guazzabuglio di solitudini, rimpianti, rimorsi: «Ricordo questo tizio che vendeva eroina a un amico. Era il 1982, ed io ero ricercato, evaso da poco. Gli mandai a dire che non mi piaceva, e che la smettesse di vendere quella roba. Rispose sfidandomi: sono qui, ti aspetto. Sparai per primo, due volte. A lui e al tipo che era con lui. Ferii quell’altro e ammazzai lui... Rimpianti? Logico. Avrei potuto evitare, sia quell’omicidio sia tante altre cose di questa mia vita, ma erano anni così, erano anni diversi: non potevi tollerare che qualcuno ti sfidasse, non potevi tollerare che qualcuno ti minacciasse. La morte era una possibilità. Io sono ateo, non credo davvero a nulla, ma oggi so che la vita è una soltanto, e quando è finita è finita. E chissà, forse anche la mia avrebbe potuto essere diversa».
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