Cultura e Spettacoli
Domenica 22 Dicembre 2024
Natale in prigionia. Spunta un sorriso dietro il filo spinato
Emilio Magni ha raccolto testimonianze della festa trascorsa in segregazione durante la guerra. Dall’Inghilterra all’Himalaya, storie di fede e di speranza
Per i cattolici convinti, ma anche per i credenti poco o per niente praticanti, penso pure per quei buontemponi che dicono di non andare in chiesa perché non sopportano il fumo delle candele, il Natale è ricorrenza sacra, festa cristiana che per alcuni giorni crea tante emozioni.
Il Natale però è sempre stato momento di gioia, di felicità, o semplicemente di consolazione? Pensiamo anche ai Natali infelici, pieni di “tiratezza”, di ricordi commoventi, di pensieri struggenti, bagnati da qualche lacrima, dedicati alla famiglia, alla case lontane. Dolorosi devono essere stati i Natali trascorsi in prigionia, nei gulag delle sterminate pianure sovietiche e nei campi di sterminio, durante e dopo l’ultima guerra mondiale. Su questi Natali vissuti in segregazione, a volte durissima, feroce, sono state scritte fiumi di parole: libri, articoli, girati film.
Nella Contea di Derby
Grazie anche al mio inguaribile “pallino” di incontrare personaggi protagonisti di intriganti storie, ho raccolto i ricordi di Natali vissuti in prigionia.
Ne rammento in particolare alcuni che pur nella durezza, nell’angoscia dei mesi, degli anni passati dietro un filo spinato, qualche loro Natale non è stato solo sconforto, ma anche un momento di letizia, pur lieve, comunque capace di sollevare un po’ il morale e a portare sul loro volto un sorriso anche se tenue, tuttavia bello.
Uno di questi Natali di guerra e di prigionia me lo ha raccontato, tanti anni fa, Gian Mario Rota, detto Vanni, di Fiumelatte, classe 1918, marinaio sommergibilista, arruolato nel 1938, tornato a casa nel 1946. Sicché Vanni di Natali di guerra e di prigionia ne ha vissuti ben otto. Ma uno se lo ricordava con più emotività degli altri. Era prigioniero degli inglesi a Derby, dopo che il suo sommergibile Cobalto era stato affondato da un incrociatore inglese nella famosa “Battaglia di mezz’agosto” del ’42 nel Mediterraneo a sud della Sicilia. Alcuni marinai morirono, altri si salvarono, tra cui Mario Rota. Catturati in mare, furono tutti portati prigionieri nel Regno Unito.
Stava giungendo a grandi passi il Natale del 1943 e Mario era in condizioni assai dure, poco vitto, pane scarso, duro, poi freddo, fatiche, in un vecchio grande stabile nella Contea di Derby.
La villa era di proprietà di Sir Anthony Eden, in quei tempi il ministro degli esteri del Regno Unito. Racconta Rota che gli inglesi dopo l’8 settembre comunque si ammorbidirono un po’. Con lui c’erano tutti i marinai del Cobalto che si erano salvati. Gli italiani però si accorgevano che il comandante del campo e le guardie erano molto più generosi con i tedeschi, pure loro prigionieri, in un’altra ala della grande villa. Ai tedeschi venivano dato vitto in abbondanza, coperte, bevande. Mentre loro beneficiavano solo di un po’ di pane durissimo e una minestra al giorno. Più che una minestra era una brodaglia. Da qualche mese però anche qualche grammo di carne e coperte. Si stava avvicinando il Natale e, come raccontava Rota, la malinconia si faceva sempre più forte e assillante era il pensiero della casa, dei famigliari. Per Rota era il quarto Natale lontano dai suoi.
Ogni tanto nelle camerate gironzolava, per nulla impaurito, un bel gatto soriano che si lasciava pure accarezzare. Tutti ebbero lo stesso pensiero: «Perché non lo accoppiamo e lo mangiamo come pranzo di Natale?». Fu così che il mansueto micio finì in un sacco nascosto in fondo a una cantina della villa.
Il giorno dopo però i prigionieri osservano dalle finestre che nel giardino la figlioletta del comandante girava disperata chiamando Momy, il suo adorato micio che era scomparso. Ormai era l’antivigilia di Natale e per il povero Momy le ore sembravano contate. Ma ancora una volta i reclusi si guardarono negli occhi e scontata fu la decisione: alla “italiani brava gente”.
Qualche ora dopo uno dei prigionieri tolse il povero soriano dal sacco e lo portò alla bimba: «Eccolo Momy, l’ho trovato, era finito in cantina». La fanciulla abbracciò forte il prigioniero, a tutti rivolse un sorriso radioso. Intanto però proprio quel giorno i tedeschi furono portati via e i locali da loro occupati erano vuoti. Il comandante del campo invece di chiudere la porta fece un cenno con gli occhi indicandola. Rota capì al volo, si precipitò dentro e si trovano davanti una “un ben di dio” di pasta Agnesi, conserve Cirio, caffè, zucchero, carne in scatola. Le marche erano tutte italiane: «Capimmo con grande rabbia che i pacchi inviati dall’Italia finivano ai germanici. Ai chi brütt “tugnitt”».
E così fu comunque un lieto Natale per quegli uomini anche se lontano da casa. «Quel sorriso lo ricorderò sempre»: si commosse ancora Rota.
A Yol
Dal 1942 al ’46 in India sono stati prigionieri degli inglesi oltre diecimila soldati italiani, anche molti ufficiali. Nel campo di Yol, una piccola città del Michael Pradesh, a nord della capitale Delhi, a poca distanza dalle bianche catene dell’Himalaya c’era il sottotenente Lido Saltamartini. Era stato catturato dagli inglesi a Tobruk nel ’42 e portato in India, nella città di Bangalore. Le condizioni erano piuttosto dure. Ma dopo l’armistizio in Italia anche qui divennero più umane. Soprattutto i graduati godevano di un po’ di libertà di movimento. Potevano riunirsi tra loro, organizzare lavori, fabbricare qualche rudimentale strumento. Coltivare l’orto.
Cosa fece l’intraprendente Saltamartini? Costruì una piccola macchina fotografica utilizzando materiale di recupero: una minuscola lente e, fortunatamente, anche alcuni rullini ancora buoni, recuperati da una camera trovata quasi distrutta in Africa. Utilizzò una scatola metallica di sigarette Walthamas e lo stagno ricavato da un tubetto di dentifricio. Grazie a questo piccolo rudimentale congegno di fortuna il sottotenente documentò la prigionia con tante immagini, un reportage eccezionale.
Tra questi commoventi ricordi della prigionia vi sono anche quelli delle feste di Natale. Un Natale in particolare, di che anno però non c’è certezza, forse del ’44.
Tornato in Italia, nel ’46, Saltamartini sviluppò e stampò. Anni dopo pubblicò un grosso volume dal titolo “10.000 in Himalaya” dove figurano oltre un centinaio di immagini. Le foto sono ovviamente quelle che sono, comunque documenti importantissimi. Il nostro piccolo eroe delle istantanee visse a lungo, morì infatti a 99 anni. Prima che se ne andasse lo incontrai nella sua casa a Milano. Sulla scrivania c’era la piccola, rudimentale camera.
Una delle immagini che più mi colpì fu quella di una Natività molto bella scolpita nel legno. Saltamartini raccontò che quella scultura con i personaggi a grandezza naturale fu la protagonista di quel Natale, forse del ’44. L’aveva scolpita un prigioniero.
Il problema fu quello di reperire il materiale. Furono scovate delle grosse travi di un capannone mezzo diroccato. Lo scultore ci diede dentro di scalpello e martello e modellò la Natività: un miracolo che il cappellano portò nella piccola chiesa costruita dai prigionieri e celebrò la messa di Natale accanto alla scultura illuminata dalle tenui luci delle candele. Intorno, il coro cantava le canzoni di Natale e tutti si comunicarono.
Un altro prigioniero, bravissimo in radiotecnica, fabbricò addirittura un apparecchio radio capace di captare alcune stazioni d’Italia. Quella notte di Natale a Yol i prigionieri, con grande emozione, ascoltarono, con il volto bagnato dalle lacrime, le musiche natalizie che miracolose onde corte trasmettevano dalla patria lontana.
Qualche immagine documenta, pur parzialmente, un’incredibile avventura di alcuni prigionieri alpinisti sulle cime dell’Himalaya.
Un gruppo di loro, sul finire del 1943, dopo la firma dell’armistizio, inoltrò domanda per poter eseguire escursioni di qualche giorno in montagna sulla “parola” di rientrare nel campo nel termine stabilito. Le passeggiate erano previste dal regolamento. I prigionieri si dimostrano così fermi nel rispettare la disciplina che le uscite, che all’inizio erano di 5 o 6 giorni, arrivano fino a 45 giorni consecutivi senza mai che ci fosse un tentativo di fuga. Durante l’inverno fra il ‘43 e il ‘44 i “nostri” riuscirono a reperire alcune logore carte topografiche del Nord dell’India e misero gli occhi su vette inviolate di seimila metri, che poi vinsero. Alcune di queste cime furono fotografate con la camera di Saltamartini.
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