Quel “deserto” di Dino Buzzati. Fumetto silenzioso

Un graphic novel trasporta il grande classico dello scrittore genovese in una dimensione visiva. Così anche i Tartari arrivano sulle “nuvole parlanti”

La pubblicazione di un bellissimo graphic novel, ottimamente sceneggiato da Michele Medda e disegnato con grande bravura da Pasquale Frisenda, ha il merito di trasportare “II deserto dei Tartari” di Dino Buzzati in una dimensione solo apparentemente nuova e impensata, sia perché il romanzo possiede una spiccata componente “visiva” che si ritrova anche nell’ottimo film che ne trasse Valerio Zurlini, sia perché Buzzati, oltre che giornalista e narratore, è stato anche pittore e disegnatore. Il suo “Poema a fumetti”, infatti, pubblicato nel 1969, ha segnato l’esordio del genere anche in ambito italiano.

Le lunghe notti al “Corriere”

La lettura di questo graphic novel ripropone inoltre alcune domande sulla genesi e sulla verità umana e poetica del romanzo. Quale idea e quali esperienze ne hanno fornito lo spunto? Per quale motivo le sue pagine continuano a comunicare con urgenza e immediatezza il vertiginoso sentimento del tempo che prende senza dare nulla in cambio, la percezione della vita come attesa di qualcosa che con ogni probabilità non arriverà mai (e, se arriverà, non sarà altro che la morte)? La risposta l’ha fornita lo stesso Buzzati in un breve scritto, quattro semplici cartelle battute a macchina e con alcune aggiunte a mano, nel quale ha spiegato la genesi e i motivi del romanzo. Lo scritto è contenuto all’inizio della lunga appendice alla più recente edizione, pubblicata quattro anni orsono negli Oscar Mondadori a cura di Lorenzo Viganò.

La spiegazione di Buzzati merita di essere riportata quasi per intero, perché illustra perfettamente la dimensione concreta ma anche simbolica e metaforica del romanzo: «Probabilmente tutto è nato nella redazione del “Corriere della Sera”, dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire».

È in quelle notti che Buzzati creò la figura del suo potenziale alter-ego, il giovane ufficiale Giovanni Drogo, protagonista del romanzo uscito poi nel 1940. La trama è nota: Drogo viene assegnato alla Fortezza Bastiani, l’ultimo avamposto affacciato sul grande Nord, al confine con l’immenso territorio dei Tartari, e vi consuma l’intera vita nella loro attesa. Alla fine i Tartari arrivano, ma per Drogo è troppo tardi: invecchiato precocemente e malato, è costretto ad abbandonare la fortezza e muore proprio mentre il nemico si sta profilando all’orizzonte.

Tecnica cinematografica

I Tartari, attesi per anni e anni come la manifestazione della vita vera e del senso dell’esistenza, non sono altro che la morte e quindi la sua negazione: la vicenda di Drogo, osserva Buzzati, è la «sintesi della sorte dell’uomo sulla Terra, del destino dell’uomo medio in attesa di un’ora di gloria che continua ad allontanarsi, allontanarsi, allontanarsi, finché, diventato vecchio, si accorge che questa sua aspirazione è andata buca».

I disegni di Pasquale Frisenda restituiscono in maniera molto convincente questa dimensione dell’attesa, soprattutto in virtù di una tecnica che si potrebbe forse definire cinematografica, fatta di primi piani, dissolvenze, campi e controcampi, piani sequenza, nonché di un utilizzo molto accentuato della prospettiva, che fornisce davvero l’impressione di vedere, intravvedere o immaginare i Tartari all’orizzonte, al limite estremo del deserto, in un ideale punto di incontro tra Buzzati e Conrad. Merita egualmente un plauso la sceneggiatura di Michele Medda, letterariamente molto raffinata, che si potrebbe perfino scorporare dai disegni e leggere come una sceneggiatura o almeno un trattamento per un film.

È quindi lecito pensare che un amante dei fumetti come Dino Buzzati sarebbe stato molto contento di questa rilettura del suo capolavoro narrativo, coi Tartari che arrivano sulle “nuvole parlanti” e in virtù di disegni molto “buzzatiani” (qua e là, a rendere ancora più appassionante la lettura, ci sono citazioni, rimandi e riferimenti ad altre sue opere narrative e pittoriche) che conservano le atmosfere realistico-fantastiche del romanzo. Chi conosce “Il deserto dei Tartari”, avrà peraltro modo di notare fino a che punto lo sceneggiatore e il disegnatore si siano presi alcune libertà, che tuttavia si situano all’interno dell’immaginario tracciato da Buzzati e anzi, se mai possibile, lo rendono ancora più immediato e persuasivo.

Il libro di una vita

Il volume è introdotto da uno scritto di Michele Masiero, che legittima e spiega in maniera molto chiara la riuscitissima impresa di Medda e Frisenda, soprattutto nella relazione tra fumetto e narrazione letteraria oppure cinematografica. Ha scritto infatti Masiero: «Il fumetto (linguaggio che Buzzati ha compreso e frequentato con maestria) ha un suo specifico che sta a metà tra la letteratura e le immagini in movimento del cinema: nella loro staticità, le vignette e le tavole possono dilatare o contrarre la narrazione e qui, in mancanza di colonna sonora, sono i silenzi a racchiudere in sé la vera essenza del “Deserto”».

Il riferimento al silenzio come dimensione fondante del romanzo è particolarmente centrato, perché ne individua il nucleo più autentico, quasi shakespeariano, e propone indirettamente una lettura alternativa: nulla vale nulla, in definitiva non importa se i Tartari arrivano o meno, il vecchio Drogo, come il personaggio di Ernst Kazirra in un racconto posteriore dello stesso Buzzati, “I giorni perduti”, si limita ad osservare i giorni della propria vita come ammonticchiati in una grande discarica, senza alcuna possibilità di recuperarli. Si capisce allora il senso di una frase apparentemente sibillina, pronunciata da Buzzati in un’intervista del 1966, un quarto di secolo dopo l’uscita del romanzo.

Una frase, peraltro, che spiega anche tutto il resto della sua opera: «“Il deserto dei Tartari” è il libro della mia vita, perché quando lo stavo scrivendo capivo che avrei dovuto continuare a scriverlo per tutta la durata della mia esistenza, e concluderlo solo alla vigilia della morte».

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