![Stig Halvard Dagerman (Älvkarleby, 5 ottobre 1923 – Enebyberg, 5 novembre 1954) Stig Halvard Dagerman (Älvkarleby, 5 ottobre 1923 – Enebyberg, 5 novembre 1954)](https://storage.laprovinciadicomo.it/media/photologue/2025/2/15/photos/cache/stig-dagerman-laria-purissima-e-vertiginosa_83bb1b70-eaf4-11ef-9032-03330b513a87_1920_1080_v3_large_libera.webp)
Cultura e Spettacoli / Como città
Sabato 15 Febbraio 2025
Stig Dagerman. L’aria purissima e vertiginosa
L’analisi de “L’uomo che non voleva piangere”. Una serie di sedici racconti dello scrittore svedese tra suggestioni kafkiane e coraggioso cinismo
Alla distanza di sette decenni dalla morte per suicidio a soli 31 anni si può affermare senza tema di smentita che lo svedese Stig Dagerman, già da tempo eternato nell’ambra della leggenda, è ormai assurto definitivamente al rango di scrittore di culto e ha varcato il confine oltre il quale c’è il mito, o almeno la mitizzazione.
Difficile dire se sia un bene o un male, soprattutto perché questa devozione nei suoi confronti, davvero degna del “Club del 27” (i celebri suicidi della storia del rock), impedisce a volte il giusto approccio alle sue opere.
Testimone del tempo
Comunque sia, miti e mitizzazioni a parte, Dagerman si è sforzato di fornire una lettura veramente alternativa della realtà umana, politica e sociale, e poi ha profetizzato molte contraddizioni e incongruenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Questa dimensione della sua opera, presente in testi narrativi come “Il viaggiatore” e “Bambino bruciato” (solo per citare una paio di titoli), nonché nello straordinario reportage “Autunno tedesco”(nel 1946, l’allora ventitreenne Dagerman fu tra i primi, insieme allo svizzero Max Frisch, a viaggiare nella Germania dell’“ora zero”), si profila in particolare nel manifesto poetico “Il nostro bisogno di consolazione” e più ancora nel volume di saggi “La politica dell’impossibile”, nel quale Dagerman, da una prospettiva periferica come quella svedese ma con estrema acutezza di sguardo e di analisi, si è confrontato con temi che nei primi anni del secondo dopoguerra potevano forse essere un lontano orizzonte oppure uno spauracchio, e invece oggi sono una triste realtà.
La crisi e il pervertimento della democrazia, i reali costi del benessere, il darwinismo sociale, la svendita dei diritti civili, l’irreversibile processo di astrazione che ha investito la vita umana e infine la funzione meramente decorativa della cultura, che in un mondo massificato e disumanizzato sembra ormai ridotta – sono parole di Dagerman, che cita e riprende il suo modello e connazionale Strindberg di “Bandiere nere” – a un puro e semplice «gioco di società»: la profondità di questi temi e il modo di affrontarli fanno di Dagerman un testimone del tempo e un grande scrittore.
Forse non all’altezza degli ultimi grandissimi della tradizione europea, ma nemmeno troppo distante, soprattutto in considerazione del fatto che le sue opere, scritte pressappoco tra i venti e i trent’anni di età, si concentrano in un brevissimo lasso di tempo che coincide col tramonto della vecchia Europa.
Nel solco di Kafka e Faulkner
Un momento molto rivelatore e uno snodo particolarmente significativo della sua breve ma intensissima vicenda umana e letteraria (i due aspetti coincidono quasi totalmente in Dagerman) possono essere rinvenuti nei racconti contenuti nella silloge “L’uomo che non voleva piangere”, uscita in Svezia nel 1983 come decimo volume delle “Opere complete” e adesso proposta anche in versione italiana dalle edizioni Iperborea nella consueta e congeniale traduzione di Fulvio Ferrari, che può essere davvero considerato la “voce italiana” di Dagerman.
La silloge propone sedici racconti: alcuni già apparsi in versione italiana nel volume “I giochi della notte” (l’unico libro di racconti pubblicato in vita da Dagerman, nel 1947), altri che non erano stati inseriti ne “I giochi della notte” e infine un gruppo di inediti che vanno dal 1941 al 1953, l’anno prima della morte. Come ha osservato giustamente il traduttore nella postfazione, il tratto che colpisce in questi racconti consiste «nella grande varietà di stili e tecniche narrative», più nello specifico nella quasi prodigiosa capacità del giovanissimo Dagerman di saldare la tradizione letteraria svedese e scandinava (Strindberg in particolare, ma anche Hamsun e Söderberg) con la più recente tradizione europea e americana, soprattutto Kafka e Faulkner (il primo, per le atmosfere e la tecnica narrativa; il secondo, per le credenziali stilistiche ravvisabili in consolidate forme narrative ottocentesche, ma restituite con una sensibilità che approda a spicchi simbolici del tutto novecenteschi).
La presenza di Kafka è avvertibile quasi ovunque in questi racconti e viene perfino evocata in titoli come “Il processo” (storia autobiografica di un gruppo di giovani che rubano una barca per attraversare un braccio di mare nell’arcipelago di Stoccolma) e “Quando farà buio del tutto”, che riprende (in maniera appunto molto “kafkiana”) un’oscura e inquietante leggenda della tradizione svedese. In quest’ultimo racconto, tra l’altro, si percepiscono suggestioni e atmosfere che torneranno poi in alcuni film di Ingmar Bergman.
La “realtà” come malattia
“L’uomo che non voleva piangere” non è soltanto una silloge, ma un vero e proprio concentrato dei temi che caratterizzano tutta la produzione narrativa di Dagerman, con la percezione della realtà come qualcosa di infido, losco, sordido, morboso e innaturale.
C’è ad esempio il terrore senza nome e senza apparente ragione (anche questo molto kafkiano) che assilla il protagonista di “Vagoni rossi”, ci sono la dimensione onirica e gli ossessivi sensi di colpa, molto strindberghiani, de “L’uomo di Milesia”, ma la versatilità di Dagerman si rivela anche in altre e più ardite sperimentazioni stilistiche, ad esempio nel flusso di coscienza di “Dov’è il mio maglione islandese?” (il più lungo della raccolta: un altro racconto di ascendenza strindberghiana, che ricorda molto da vicino “La lampada verde”), nel quale l’io narrante si presenta come un uomo felice e appagato, in totale armonia con la vita, intento a costruire con la tecnica del flusso di coscienza una versione menzognera e illusoria della propria esistenza.
Ma infine, confuso e inerme a causa di una crescente ubriachezza, la smonta e rivela tutta la propria infelicità, utilizzando nello smontaggio la stessa tecnica del montaggio. Difficile dire se si tratta del racconto più bello di Dagerman, probabilmente è il più coraggioso, sorprendente ed originale. Una cosa è comunque certa: anche in questi racconti, come nel resto dell’opera di Dagerman, ci si trova in una zona infinitamente lontana dalle pappe del cuore, dai miasmi paludosi del “politicamente corretto” e dalle tante, troppe ipocrisie civili, mezze menzogne e mezze verità che ammorbano l’esistenza, allora come oggi.
È insomma un’aria purissima ma talmente rarefatta da procurare le vertigini, quella che si respira in queste pagine, forse le più vicine alle considerazioni finali di “Il nostro bisogno di consolazione”: «Tutto quello che possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni istante della mia vita tra le false consolazioni, che accrescono l’impotenza e rendono più profonda la mia disperazione, e le vere consolazioni, che mi guidano a una temporanea liberazione».
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