Suicidi di Stato nell’inferno sulla terra: l’incontro alla Ubik di Como domani

Il cronista Alessandro Trocino racconta dodici storie di persone che si sono tolte la vita nelle carcere italiane. «Un omaggio alla memoria, ma anche un modo di parlare di diritti negati». Giovedì alle 18 l’incontro alla Ubik a Como

«Un società dove si contempla l’inferno sulla terra ha perso in partenza». Parole di una sorella, che in quell’inferno ha perso il fratello. Trovato morto, con un pezzo di lenzuolo attaccato a una grata e poi stretto al collo. Un inferno dove, dall’inizio di quest’anno, si sono tolte la vita già 22 persone. Dove tra il 2021 e il 2024 si sono registrati, ogni anno in media, 73 suicidi. Quel luogo, quell’inferno sulla terra, è il carcere. Sono le carceri italiane.

Alessandro Trocino, cronista del Corriere della Sera (con un breve trascorso da giornalista anche Como), penna sensibile ed elegante, ha raccolto dodici storie di altrettante vittime di quell’inferno. E ha scritto un prezioso tascabile per Laterza: “Morire di pena”, 12 storie di suicidio in carcere.

Diritti negati

«Scrivere di queste vite perdute - spiega Alessandro Trocino - non è solo un omaggio alla loro memoria, ma è anche un gesto politico, un modo per parlare di diritti negati e di tribunali, di norme contraddittorie e di burocrazia assassina, temi che ci riguardano da vicino».

In un momento storico in cui «certezza della pena» e «buttate via la chiave» sono mantra politici e sociali, le storie raccolte con pazienza e sensibilità da Trocino (che domani pomeriggio alle 18 sarà alla Ubik di piazza San Fedele a Como a parlare di queste storie e del suo libro, insieme a Katia Trinca Colonel) rappresentano una sentenza contro un sistema pensato per stritolare vite, e non certo teso a rieducare i condannati (come vorrebbe la Costituzione).

E le vittime di cui si narrano istanti di vita, non sono soltanto i detenuti, perché tra le dodici storie l’autore ha raccolto anche quella di un agente penitenziario che si è sparato a causa del clima di soprusi a cui era sottoposto, nel suo lavoro dentro le carceri.

Le storie

Come sottolineato nella prefazione da Luigi Manconi, sociologo da sempre sensibile ai temi carcerari, e da Marica Fantauzzi, scrittrice e giornalist che si occupa di progetti rivolti a minori in pena alternativa alla detenzione, «per tragico paradosso chi è all’interno di un istituto penitenziario spesso non conosce presente né futuro ed è costretto a rivivere senza sosta il suo passato. E la società intorno, pur fissando l’identità del condannato al suo reato, in breve tempo finisce per dimenticarsi di quell’uomo o di quella donna, della sua storia, di chi fosse prima di entrare nell’ufficio matricola e di chi avrebbe potuto ancora essere».

Il valore dell’opera di Alessandro Trocino è quella di aver ridato anima a chi ha smarrito se stesso dentro le nostre carceri, al punto da negarsi al futuro. L’autore è andato a cercare madri, sorelle, compagne - le voci al femminile sono di gran lunga la maggioranza, forse perché più sensibili a certe tragedie - e dopo essere riuscito a superare le loro diffidenza ha riannodato i fili di quelle esistenze freddamente riassunte dai certificati di morte per farci assaporare il valore dell’empatia. Anche nei confronti di chi è accusato, a torto o a ragione, di un reato. Ed è attraverso questa operazione di grande umanità, ma anche di cronaca spietata e senza sconti, che “Morire di pena” può aiutare anche i più scettici, quelli del “fine pena mai” a ripensare a cosa sia e cosa dovrebbe davvero essere “pena”.

Un saggio, certo, ma che sa unire il piacere delle lettura alla doverosa denuncia. Una denuncia che rievoca Voltaire, quando scriveva che è dalle carceri che «si misura il grado di civiltà di una Nazione». Se così è, il libro di Alessandro Trocino restituisce l’immagine di uno Stato clamorosamente e drammaticamente incivile.

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