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Giovedì 17 Aprile 2025
«Un mondo così diseguale. Il neoliberismo ci slega»
L’intervista a Giovanni Gozzini, ricercatore e docente di Storia contemporanea all’Università di Siena . Di recente è stato ospite al Festival “Echi di Storia” di Lugano, trattando i temi di finanza e globalizzazione
“Il secolo delle diseguaglianze: globalizzazione, finanza, migrazioni”: è questo il titolo del contributo che lo storico Giovanni Gozzini, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Siena, presenterà al festival “Echi di storia” di Lugano il prossimo 12 aprile.
I temi trattati, già al centro delle ricerche del professor Gozzini, che oggi intervistiamo, corrispondono a tre sfide cruciali delle contemporaneità, sfide che possono essere governate– e non subite– solo attraverso la (ri)costruzione di una coscienza e di una progettualità politica globale.
Professore, prendendo avvio dal tema del suo intervento: qual è stato il momento chiave del XX secolo che ha segnato l’aumento della diseguaglianza tra paesi e all’interno dei paesi?
Nella fase inter e post-bellica l’ineguaglianza era calata per via dell’aumento dell’intervento statale in economia. Questa tendenza è durata fino al primo shock petrolifero del 1973: da quel momento fino ad oggi le ineguaglianze sono aumentate più o meno in tutto il mondo per effetto della politica economica neoliberista che prevede il ritiro dello stato dalla sfera economica per incentivare l’imprenditoria individuale a discapito di alcune misure di redistribuzione del reddito. Oggi tra i paesi più diseguali ci sono gli USA, la Gran Bretagna e gli stati del sud dell’Europa, tra cui l’Italia. Ma anche la Cina, che è un paese almeno di nome comunista, ha forti differenze di reddito interne. In questo contesto l’eccezione è costituita dai paesi del nord Europa in cui le disuguaglianze non sembrano essere aumentate nel corso del tempo.
Oggi assistiamo a un mondo sempre più frammentato, tra protezionismo economico, tensioni geopolitiche e crisi ambientali. Crede che il modello della globalizzazione sia in una fase di mutamento?
No, non lo credo. La storia degli ultimi due secoli, e forse dell’intera umanità, è leggibile come una battaglia tra la globalizzazione – intesa come movimento di persone, merci e capitali – e la politica. Quest’ultima spesso reagisce in modo non pacifico alla propensione naturale degli esseri umani e dell’economia a superare le frontiere. Dagli inizi del 2000 stiamo assistendo a politiche protezionistiche che hanno come obiettivo quello di restringere il libero scambio, una tendenza che oggi fa più impressione perché è collegata a un improvviso clima di guerra. Del resto quando si generalizzano regimi protezionistici, e quindi viene meno il clima di collaborazione tra stati, è molto facile che si degeneri in un conflitto militarizzato.
I mercati sono sempre più dominati da algoritmi, intelligenza artificiale e speculazioni. A suo parere la finanza può essere riformata in un motore di equità anziché di diseguaglianza?
Sì, ma è necessaria una seria politica di regolazione. Mettendo un limite alle possibilità di speculazione, come è stato fatto nel periodo tra le due guerre mondiali, la finanza potrebbe tornare a svolgere la sua funzione positiva di sostegno dell’economia reale – ad esempio creando nuovi posti di lavoro o dando impulso alla sperimentazione tecnologica. Le crisi economiche recenti infatti hanno in comune proprio dei meccanismi di speculazione finanziaria, e l’incapacità della politica di regolarli. Oggi rispetto al passato c’è un ulteriore complicazione, cioè la facilità di movimento delle masse di denaro. Il controllo di questi flussi ha richiesto e richiederà una politica globale di collaborazione inter-governativa di cui l’Europa unita costituisce un primo esperimento.
Un altro tema che affronterà è quello delle migrazioni: qual è l’impatto di questo fenomeno sulla popolazione mondiale e quali politiche potrebbero renderlo più sostenibile?
In percentuale i migranti sono una quantità ristretta della popolazione mondiale ma in cifra assoluta sono aumentati e costituiscono oggi una massa critica di circa 250 milioni di persone. La politica dovrebbe adoperarsi per rendere questo movimento di persone sostenibile riducendolo nella sua quantità - ad esempio attraverso lo sviluppo economico dei paesi di partenza - o governandolo nelle sue terre di destinazione. Per gestire in modo più efficace il fenomeno è opportuno scoraggiare la tendenza naturale dei migranti di concentrarsi negli stessi quartieri, provocando sacche di disagio e quindi il rigetto nelle popolazioni indigene. Viceversa facilitare la dispersione dei migranti nelle comunità d’arrivo conviene a tutti e facilita l’integrazione.
Anche in questo caso però è necessario affrontare il tema nell’ottica di una politica globale.
Vedendo i risultati deludenti alle ultime elezioni europee il movimento ecologista sembra in fase di crisi, eppure i problemi sembrano tutt’altro che risolti…La situazione è in effetti un po’ paradossale. Da una parte la rivoluzione ambientalista ha radicalmente cambiato le nostre abitudini quotidiane, dall’altra le forze sensibili a questi temi, come i partiti Verdi, non hanno saputo tradurre questo punto di coscienza in un’alternativa politica. Oggi c’è anche chi – come Trump e Putin – scommette e sfida il cambiamento climatico perché sa che il problema riguarderà in primis le terre più povere e più a rischio desertificazione. Questo è l’effetto negativo della de-globalizzazione: un venir meno della coscienza planetaria che è oggi in ritiro anche a causa delle guerre e dei radicalismi religiosi. In un quadro come questo la risoluzione del problema ambientale si fa sempre più lontana.
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