«Un mondo senza futuro. I romanzi sono profetici»

L’intervista al filosofo Umberto Galimberti, di recente ospite della Società operaia di Colico per una lectio. «Orwell e Huxley hanno anticipato i ragionamenti sulle conseguenze di una società che si basa sul consumo»

Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate. Secondo il filosofo Umberto Galimberti la società contemporanea, dominata dalla tecnologia e dal consumo, è lo specchio della terzina dantesca che introduceva all’Inferno.

Più che farsi prendere dalla disperazione, per il filosofo e psicanalista – nato in una famiglia povera brianzola, rimasto orfano da ragazzino, uno che insomma ha dovuto sudarsi gli studi – sarebbe meglio prendere atto che il tempo del dominio dell’Occidente volge al termine.

Galimberti, lei si trova a Colico ospite della Società operaia. Un’associazione dal nome che evoca tempi lontani nei quali c’erano meno diritti, ma più solidarietà.

La Società operaia è stata profetica. Nasce in un tempo in cui i diritti erano scarsi, eppure si organizzava mutuo soccorso, si immaginava una comunità solidale. Oggi, quel mutuo soccorso è scomparso. Come la sanità, anche il Welfare viene sempre più affidato al privato. Siamo all’epilogo di una stagione storica. Quindi, sì, trovo significativo e simbolico essere qui.

Di questi tempi è invece normale sentirsi disorientati?

Il disorientamento è comprensibile. Il mondo è cambiato in modo radicale, e anche piuttosto violento. Siamo nella prima epoca della storia umana priva di un orizzonte di senso. I greci si riferivano alla natura, i cristiani alla parola di Dio, l’età moderna alla ragione, con l’idea che chi pensa bene agisce bene. Ma con il Novecento e i totalitarismi, abbiamo capito che si può pensare molto bene anche il male. Ce lo ha insegnato il Nazismo. Da allora siamo senza una direzione, senza un “perché”. Viviamo nella società della tecnica, che non ha alcuno scopo da realizzare se non il suo auto-potenziamento. La tecnica ha fatto fuori la politica, che non è più il luogo della decisione. La politica è subordinata all’economia, e l’economia si affida alla tecnica per investire. Ma la tecnica non ha un’etica, non ha scopi, non dischiude scenari di salvezza. Esiste solo per potenziarsi, senza chiedersi dove ci sta portando.

E l’intelligenza artificiale? È un’opportunità o un rischio?

Il problema non è la macchina, ma chi la informa. L’intelligenza artificiale produrrà ciò che le viene dato. Chi ha più potere la caricherà con i propri valori, con i propri dati. Inoltre, rischia di uniformare il pensiero, perché se tutto viene delegato, nessuno pensa più con la propria testa. Non sterilizziamo solo il corpo con le macchine, ora stiamo sterilizzando anche la mente.

Ci sono due romanzi distopici inglesi del Novecento che sono stati profetici tracciando il mondo nel quale oggi viviamo: “1984” di George Orwell, incentrato sul rapporto fra potere e controllo e “Il nuovo mondo” di Aldous Huxley nel quale si prefigura un’umanità dominata dal piacere del consumo. Chi fra i due aveva visto giusto?

Entrambi. Il primo era profetico, nel senso che saremmo arrivati a questa situazione in cui l’uomo non è più il soggetto della storia. Gunther Anders l’aveva già scritto nel 1955, in quel bellissimo libro intitolato “L’uomo è antiquato”. Oggi non siamo più persone, siamo consumatori e produttori. Se non consumi, non si produce. E se non si produce, c’è disoccupazione, e poi disordini sociali. Quindi il sistema ci impone un consumo forzato. Due ancelle fedeli a questo processo sono la moda e la pubblicità. La moda rende obsoleto anche ciò che è ancora utile. La pubblicità, invece, non vende beni, vende bisogni. Quando il bisogno è interiorizzato, il prodotto diventa indispensabile. C’è un libro interessante di Frédéric Beigbeder, “Lire 26.900”, incentrato sulla storia di un pubblicitario. Dice: “Sono un pubblicitario, ebbene sì, inquino l’universo. Vendo sogni, ragazze photoshoppate, luci stroboscopiche. Ma della vostra felicità non ci importa nulla. Perché chi è felice non consuma. Questo dice tutto.

Un’ultima riflessione: l’Italia sta affrontando una grave crisi demografica, tra denatalità e invecchiamento. Che futuro ci aspetta?

Questo fenomeno segnerà la fine dell’Occidente, inevitabilmente. I Paesi poveri – dove lo stato sociale è assente – fanno figli, perché i figli sono la loro previdenza sociale. Qualcuno immigrerà, qualcuno morirà nel Mediterraneo, qualcuno morirà fucilato, qualcuno resterà, qualcuno manderà a casa quello che guadagnerà nei paesi sviluppati: i figli per loro sono la previdenza sociale e quindi generano. Noi, al contrario, abbiamo creato condizioni che impediscono ai giovani di procreare. C’è un vuoto enorme tra l’età biologica della fertilità e quella in cui si può concretamente mettere su famiglia. Serve un lavoro, una casa, la possibilità di fare un mutuo. Mille euro per il terzo figlio non bastano, quando non si riesce neanche a fare il primo. La nostra società ha bloccato la generazione. I giovani vivono una sessualità che Jacques Maritain definiva “angelica”, perché priva di procreazione, ma solo per necessità. E nel frattempo gli anziani raddoppiano, mentre i giovani calano. È uno squilibrio insostenibile per qualunque sistema pensionistico.

Siamo ai titoli di coda

Guardi cosa è successo all’Impero Romano. Quando nessuno lavorava più, si viveva delle derrate alimentari dalle colonie. Si importarono allora i barbari: prima per fare gli acquedotti, poi per formare le legioni, perché i romani poi non combattevano più. Infine, uno di loro divenne imperatore: Diocleziano. La storia non è lineare, è fatta di cicli. E questo ciclo dell’Occidente sembra essere al suo declino.

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