Parole di integrazione da tenere in tasca

L’iniziativa Racconti e voci che toccano i cuori, quelli delle donne che hanno partecipato ai corsi di italiano per stranieri

Jumpa Lahiri, scrittrice di origine bengalese innamorata dell’italiano, ha scritto che per imparare una lingua e sentirsi legati ad essa «bisogna avere un dialogo, per quanto infantile, per quanto imperfetto». È a queste parole che si sono ispirate le volontarie della Scuola di italiano per donne straniere di Como che operano nell’associazione Lachesi alla Circoscrizione di via Grandi. Gilda Dangelo, coordinatrice, insieme a Giordana Corbani, Maria Maggi e Mari Adele Molteni formano una squadra d’eccezione che accompagna le allieve verso quella speciale autonomia che la conoscenza di una lingua non tua porta con sé.

Le loro allieve provengono da Paesi dell’Africa e dell’America latina, dall’Ucraina, dal Medioriente, dallo Sri Lanka. I corsi, più che lezioni di lingua, sono esperienze di libertà e di emancipazione. Nascono amicizie, si condividono momenti di allegria, i ricordi dolorosi chiusi nell’animo trovano finalmente voce. Le donne per qualche ora si sganciano dagli impegni familiari, possono seguire con serenità le lezioni anche se hanno figli piccoli, grazie al nido. Imparano l’italiano, e non solo sui banchi di scuola ma dentro la città, girando a piedi, scoprendo luoghi storici. Vanno al cinema, al museo, al mercato coperto. E con le loro parole in tasca sperimentano la gioia di potersi esprimere e di essere capite.

Capire la semplicità

Lo scorso 24 maggio, in biblioteca a Como, le voci di queste donne sono arrivate dritte al cuore in un recital che ha letteralmente incantato i tanti presenti. Accompagnate dagli intermezzi musicali di Maria Teresa Lietti, le allieve hanno letto i propri testi autobiografici e quelli delle compagne che non erano potute venire.

In un verso di una sua canzone, Nada avverte: «Sai come è difficile capire la semplicità!». Eppure, quando la semplicità di una poesia, di un breve racconto, di un’evocazione dell’infanzia riesce a fare eco a emozioni e sentimenti che riconosci in te, si crea un legame che non scorderai mai più. E questa magia è arrivata da testi come questo della libanese Faten: «La lingua madre ce l’ho nel cuore perché è la mia prima lingua. Nel naso, perché quando l’ascolto sento i profumi della mia terra». O quello di Hoda: «La lingua madre ce l’ho nella testa perché penso in arabo, nel cuore perché è la lingua dell’infanzia, nelle orecchie perché ascolto sempre il Corano».

Marie Louise, camerunense di 32 anni, è riuscita a leggere alla platea i fantasmi di una traversata in mare: «Io ero incinta e avevo paura, ero molto spaventata affamata e assetata. A un certo punto della notte la barca ha iniziato a riempirsi di acqua... tutti pensavamo di morire, le donne piangevano, alcune pregavano e cantavano. Intorno alle sei del mattino tutto è tornato alla normalità, il mare era calmo. Ma la paura c’era ancora. Io ho alzato gli occhi al cielo per chiedere perdono a mia madre che aveva perso le mie sorelle e se perdeva anche me poteva morire».

«Quest’anno io vengo a scuola solo per me perché ho perso tanto tempo - ha letto Katigia - sono venuta in Italia nel 2003 e nel 2004 ho partorito la mia prima figlia; la mia famiglia ha detto: “hai una figlia, dove vai?” E dopo quattro anni ho partorito la seconda figlia e quando lei ha cominciato ad andare all’asilo ho avuto altri problemi perché per aiutare mio marito ho dovuto trovare un lavoro e così ho cominciato a cucire orli a mano ogni giorno e non avevo mai tempo per me. Quando le mie figlie sono cresciute, io ho avuto più tempo e non ho ascoltato la mia famiglia ho detto: “Basta! Io voglio andare a scuola”. Un giorno camminavo sul marciapiede e ho pensato “Voglio prendere la patente”. Ho studiato tanto tanto, ho superato gli esami e adesso guido».

Nostalgia

Nelle parole di molte c’è la nostalgia di casa, i ricordi di sapori, di odori. Ci sono i disagi di luoghi in cui ne va del loro destino o di quello dei loro figli. «Quando studiavo mi sedevo sempre sotto l’albero e leggevo i libri in primavera, dopo mangiato. Il pomeriggio dormivo sotto l’albero, il mio albero stava dentro casa mia e tutte le mattine mettevo l’acqua all’albero. Il mio albero faceva il mango: quattro maturi e sei acerbi. Adesso non so come sta il mio albero di mango» è il poetico ricordo di Kolpany dello Sri Lanka. Success, che viene dalla Nigeria, si sente straniera «quando vado negli uffici o dove lavoro». Anche Leonor si sente straniera ma ha scoperto un luogo dove trova pace, la chiesa di San Cassiano a Breccia: «È piccola, ha un’architettura bellissima che mi ricorda la chiesa antica del mio paese in Perù. Lì mi sento protetta e con tanto conforto, invece mi sento straniera quando vado in questura e quando devo far visitare i miei bambini dalla pediatra».

Le insegnanti hanno ribadito quanto sia stato importante per le donne essere ascoltate come persone che, semplicemente, si raccontano. Si sono meravigliate che in così tanti fossero lì per loro, hanno scoperto di esistere non solo nelle loro case, ma tra la gente che la città la vive. Poterla vivere anche loro è il traguardo più bello.

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