Erasmo Figini: «Il primo affido nell’86, oggi questi ragazzi sono tutta la mia vita»

L’intervista Il fondatore dell’associazione Cometa: «Io e mia moglie non volevamo figli. Poi dissi sì a don Aldo Fortunato»

Cometa è una sfida quotidiana, ma il suo fondatore Erasmo Figini non si vedrebbe da nessun’altra parte: «È la mia vita, non tornerei mai indietro, e con mia moglie non sentiamo nemmeno più l’esigenza di prenderci una pausa», dice. Figini si racconta sovrapponendo i suoi giorni a quelli dei tanti figli che aiuta a crescere («pensare che di figli non ne volevamo e siamo stati 10 anni senza») e intanto spera che Cometa continui «mantenendo il suo senso fondante».

Qual è la ricetta di Cometa che da anni segue tanti ragazzi?

Non parlerei di ricetta, ma di stupore generato dal primo affido, al quale io e mia moglie alla fine del 1986 abbiamo detto sì. Quasi quotidianamente per cominciare la giornata io parto da quel sì. Mi chiedo ancora perché l’abbiamo detto a don Aldo Fortunato che mi aveva telefonato dicendomi che nessuno voleva quel bambino di 5 anni, sieropositivo, i cui genitori erano morti. «Io non posso tenerlo qui», mi aveva detto, «e nessuno lo vuole». Io e mia moglie, chissà perché abbiamo detto insieme sì, benché avessimo già due figli naturali di 3 e 8 anni. Ecco, ogni giorno mi chiedo come sia stato possibile che abbiamo accolto quel bambino malato e che l’abbiamo amato come i nostri figli biologici. Invece sì, può accadere che quell’amore per i tuoi figli tu lo viva per un estraneo e tu abbia la passione per l’unicità della persona. Oggi è come se chi entra e lavora in Cometa mi venisse affidato. Uso affidare e non educare, perché educare per me è impossibile.

Impossibile?

Intendo dire che quando ami una persona cerchi di fare il massimo per lei, ma puoi sbagliare e lo fai senza accorgerti, fai un tentativo di tirare il fuori il meglio, ma poi non sai cosa succede. In alcuni momenti a me sembrava di amare di più il mio primo figlio in affido che gli altri due miei figli, perché era malato e lì è iniziata la mia seconda vita, benché la prima vita sia stata bella. Con Cometa è iniziato il mio cambiamento.

Cambiamento che è ancora oggi il motore di Cometa?

Certo, ho imparato a guardare le persone con lo stupore di vederle crescere aiutandole a tirare fuori il proprio meglio. All’inizio di quell’affido c’era da impazzire e, per fortuna, ho avuto anche l’aiuto di mio fratello medico, ma quell’esperienza mi ha insegnato che ogni giorno devo mantenere quello stupore, perché ci sono stanchezza, preoccupazioni che possono danneggiare o rallentare questa tensione all’altro; poi ho imparato che i figli, anche quelli naturali, non sono tuoi, ma ti sono affidati per un po’. È un concetto difficile per un genitore, ma noi diamo la vita a un’altra unicità che dobbiamo amare e accompagnare alla sua vita, senza conoscerne il carattere, i suoi talenti. Questa tensione cerco di averla per chi ho in affido a casa, a scuola, per i migranti. A casa ho 11 figli in affido la più piccola ha 11 anni e i grandi hanno fatto la loro vita e se ne sono andati e tornano a trovarci, come in qualsiasi famiglia.

Cometa ai ragazzi, lo raccontano, dà moltissimo, ma qual è il dono più grande che lei riceve da loro che spesso arrivano prevenuti?

Penso a Erik, che ora è mio figlio. Dire che è arrivato a Cometa prevenuto è dir poco: lui è venuto in lotta. Ha vissuto in istituto, poi in adozione e poi è stato rifiutato dai genitori adottivi, quando è arrivato da Livorno a casa nostra, sotto Natale, preceduto da una telefonata dei servizi sociali, ci diceva cose durissime. Rifiutava l’abbandono, che è ciò che ferisce di più un uomo, e la rabbia verso la vita la riversava su di noi. C’è voluta tantissima pazienza, ci sfidava, ma con lui ho sperimentato l’amore gratis per i figli: per loro l’amore non finisce.

Ci sono casi in cui non siete riusciti a fare raggiungere ai ragazzi l’obiettivo di una vita migliore?

Ho imparato il valore del tempo. I ragazzi che arrivano da noi devono fare i conti con enormi ferite legate soprattutto all’abbandono. Uno dei più grandi dolori è stato col secondo affido, aveva 9 anni, la stessa età di mio figlio, ma a 19 anni è scappato di casa e lì mi sono chiesto: a cosa sono valsi i miei sforzi se lui torna al mondo terribile da cui l’ho portato via? Poi è tornato e ho imparato che una cosa data per persa non sempre lo è. Ultimamente sto vivendo una situazione diversa, ma dolorosa, di una ragazza che dopo difficoltà grosse sembrava avviata a una vita nuova; ha finito la scuola, aveva un bel lavoro, l’abbiamo aiutata a comprare un bilocale, poi per un incontro sbagliato sta ripercorrendo la strada di sua mamma, che potrebbe diventare brutta. Cosa fai? Ne parli liberamente con lei, perché le vuoi bene, come faresti con un tuo figlio biologico e speri.

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