Il dialetto? «Una lingua piena di forza che fa invidia all’italiano»
Erba Il giornalista Emilio Magni è tra i più grandi estimatori del vernacolo: «Nessuno slogan moderno avrà mai l’effetto di un motto dialettale»
«Io comincerei col dire che il dialetto è una lingua venuta avanti nei secoli per conto suo quindi, distaccata dall’italiano. Giunge da molto lontano. La sua forza sta nella sintesi estrema e nel suo spontaneo lasciar intendere, ha una chiarezza comunicativa da far invidia all’italiano: nessuno slogan inventato dai grandi strateghi della comunicazione contemporanea avrà mai la forza di un motto dialettale».
Emilio Magni, giornalista, è fra i più grandi estimatori e conoscitori del dialetto presenti sul territorio comasco. Parlano per lui i tanti libri che ha dato alle stampe negli anni: “L’è tua, l’è mia, l’è morta a l’umbrìa. 250 modi di dire in Brianza e sul Lario”, “Il dialetto dei mestieri perduti” e “A Milan i morön fan l’üga” - senza contare le pubblicazioni più recenti dedicate ai “mangiari” brianzoli - sono sono alcuni dei testi che racchiudono anni di studi e di passione.
L’obiettivo di Magni? Salvare, almeno sulla carta, un patrimonio culturale inestimabile. «Inestimabile e pieno di sapere. Il dialetto - dice Magni - trae origine dal greco, dal latino, dal volgare, dal provenzale, ma anche dal celtico, dal longobardo, dal germanico e molto dal francese. Tutti i termini hanno un etimo che viene da molto lontano: per esempio “tegasc”, la pelle dell’acino dell’uva, deriva dal latino “tegumento” che significa contenitore».
Parlare il dialetto è fare i conti con la storia. «Il nostro è dialetto milanese - dice lo scrittore - perché nasce lì, però con infinite flessioni, accenti, desinenze, atmosfere diverse da contrada a contrada. Quello che mi ha sempre affascinato è l’incredibile forza comunicativa di questa lingua».
Magni cita l’esempio del Carletto, un amico “legnamée” di Cantù, che ha definito così un elemento d’arredo posto dal Comune su un marciapiede: «Roba de ciod». Con questo modo di dire, spiega Magni, «Carletto ha voluto dire che il lavoro era stato fatto rozzamente, insomma era una mezza porcheria. Tutto questo e anche altro ridotto a sole tre parole. Questa è la forza del dialetto, gode di una sintesi estrema». Altro che retaggio dei tempi antichi, facendo riferimento al dialetto sarebbe molto utile nel mondo della pubblicità. «Penso di poter sfidare i nuovi strateghi della comunicazione a trovare slogan che godano della stessa sintesi e della stessa forza di convincimento di alcuni modi di dire tipo “gu i oli sant in saccoccia” per dire che “ho addosso una paura tremenda perché temo un evento tragico”, oppure “sum mezz in gesa” per dire che “non sto bene, non posso, oggi, venire a lavorare perché ho la febbre”».
Molti sostengono che il dialetto sia volgare, senza cultura. «E allora - dice Magni - rispondo con la storia di “golzà” (o “gulzà”) che significa ardire, osare, cercare con forza qualcosa da qualcuno. “Golzà” è un arcaismo del Duecento usato da Bonvesin da la Riva, autore della famosa “De magnalibus urbis Mediolani” che venne tradotto in italiano da Giuseppe Pontiggia. Il comunissimo “l’è fatta”, per dire che la minestra è insipida viene dal latino “fatuo”. La “pigotta”, ovvero la bambola delle nostre nonne che deriva dal longobardo “piga” che vuol dire ragazza».
Non sempre chi parla dialetto sa che quelle parole risalgono al tempo di Cesare o Dante. Eppure parlare, ascoltare e studiare il dialetto è come dialogare con i nostri antenati. Senza restare ancorati al passato: «Il dialetto è sempre vivo e vitale, si aggiorna e continuerà a farlo».
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