Il dibattito: «Se è visibile, la beneficenza
funziona meglio»

La parola all’esperta Non sempre il bene in silenzio è la scelta migliore: «Pubblicizzarlo significa anche contagiare gli altri»

Pubblicizzare la beneficenza sì, pubblicizzare la beneficenza no? Nella terra dei cachi, cantandosela alla Elio e le Storie Tese, dopo il Pandoro Gate di Chiara Ferragni porsi questa domanda non è più così scontato. Oltre all’eterna dialettica tra chi dice che il bene si fa in silenzio e chi propone di comunicarlo per avviare un contagio positivo esiste una schiera di soggetti che complicano e non di poco il contesto della comunicazione. Un tema di grande interesse sociale perché racconta molto della nostra contemporaneità e di come noi la abitiamo.

Social media, tiktoker, creatori di contenuti, notorietà, campagne benefiche, brand, credibilità e fiducia sono alcuni degli elementi determinanti che, proprio analizzando la parabola discendente della regina degli influencer, Anna Sfardini, professoressa di Comunicazione interculturale e media alla Cattolica di Milano, ha aiutato a mettere in connessione tra loro.

«È fondamentale fare pubblicità alla beneficenza intesa come occasione per rendere pubbliche, dare visibilità, promuovere opere di bene. Un circuito positivo della pubblicità può portare a contagiare altre persone affinché contribuiscano alla medesima buona causa». Farlo con volti noti è altrettanto un aspetto chiave. «Personaggi di riferimento riescono a utilizzare la propria notorietà a fin di bene. La propria immagine in questi casi deve essere messa al servizio della beneficenza, diventando un modo per partecipare a un’operazione finalizzata all’aiuto e al bene di altri, ovviamente escludendo ogni tipo di cachet per il personaggio noto».

In un mondo iper-visibile in ogni suo aspetto la beneficenza ha tutto il diritto di essere visibile. «Pensiamo ad esempio alla solidarietà che si genera di fronte a eventi imprevedibili come è stata l’alluvione in Emilia Romagna. Sono casi in cui si innesca una catena positiva di aiuto grazie anche a opinion leader, come gli stessi giornalisti, che si attivano per promuovere una campagna verso chi si trova in situazioni di bisogno. Pensare che la beneficenza debba essere un fatto privato e che, se comunicata, tradisca secondi fini, sposta i termini del problema».

«Nel caso Ferragni invece la pubblicità alla beneficenza aveva lo scopo di portare un vantaggio economico personale all’influencer come un qualsiasi lavoro commerciale. Da questp abbiamo capito che comunicare è un lavoro molto serio, che prevede e pretende competenza. Più si è famosi più si deve tenere conto della responsabilità delle proprie comunicazioni».

Influencer e creatori di contenuti rimangono centrali all’interno del nostro contesto comunicativo. «Funzionano quando riescono a essere credibili e a costruire un patto di fiducia con il pubblico che li segue. La credibilità e la fiducia poi aumentano quando i contenuti non sono solo legati esclusivamente ai brand che pubblicizzano prodotti, ma anche a valori e ad atteggiamenti positivi nella relazione con gli altri. E queste sono le tematiche che a mio parere attirano di più i ragazzi. Se si tradisce questo patto, crolla tutto. Mi ha comunque stupito a livello comunicativo la rapidità con cui una carriera come quella di Chiara Ferragni, costruita sui social, si sia disintegrata in modo così immediato. Di fronte a una storia di falsa beneficenza verso bambini malati, la società si è come svegliata. Questa volta, per il momento, il mondo dei social non sta dimenticando: ha riportato un senso di realtà e speriamo di responsabilità in un contesto per definizione costruito e fittizio».

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