Diogene / Como città
Martedì 29 Ottobre 2024
Lettere dei medici dall’Africa: quanta fatica e quanto amore
L’iniziativa Le esperienze dei missionari del Cuamm tra Etiopia, Uganda, Sierra Leone. Con loro l’ospedale Valuce ha lanciato il progetto “Ostetricia nella Repubblica Centrafricana”
Con “Africa, andata e ritorno” i medici missionari del Cuamm hanno cercato di raccontare le loro esperienze in Etiopia, Uganda, Sierra Leone, per testimoniare le cure prestate nel continente nero da questa associazione nata nel lontano 1950.
Con loro a Como il Valduce ha stretto un gemellaggio, il progetto “Ostetricia nella Repubblica Centrafricana” mira a formare qui nuove professioniste capaci di aiutare donne e bambini.
Mariella Enoc, la procuratrice dell’ospedale, presentando il libro all’associazione Cometa, ha detto che «un ospedale cattolico dev’essere aperto al mondo e questo è un passo importante per donare la propria esperienza, il proprio sapere e per rendersi disponibili alla formazione di operatori sanitari centrafricani in loco».
In una terra che, raccontano i medici con l’Africa Cuamm, ha un odore diverso, acre, alle volte bruciato. «Stamattina è morto un bambino. Aveva sei anni e mezzo e si chiamava Joseph. È arrivato in coma con quaranta di febbre, le palpebre color della neve, una milza dura che gli occupava la pancia e duecentoquaranta parassiti per microlitro di sangue. Le convulsioni e la febbre erano apparse la sera prima, tornando da scuola. La madre, una volta capito che non sarebbe riuscita a fargli ingoiare neanche una pillola, aveva marciato fino a Minakulu per chiedere ai nonni cinquantamila scellini, poi si era legata la figlia piccola al petto e il grande sulla schiena e aveva percorso a piedi tutti i trentadue chilometri che la separavano dal nostro ospedale».
«Quanto amore ho visto nel prendersi cura dei pazienti, quanta fatica fisica e mentale che condividevamo insieme, ad esempio con Anna che dormiva nell’anticamera della Sala operatoria sotto una zanzariera con suo figlio più piccolo con la malaria e quaranta di febbre, pronta per fare l’anestesia alle mamme che dovevano sottoporsi a un cesareo d’emergenza la notte. Una delle foto che mi illumina rivedendola è proprio quella con lei e Francis, con quel sorriso enorme ed i denti bianchi, bianchi». «Papà, poi, ancora sta lì a pensare come sia possibile che, praticamente ogni notte, le compresse di antibiotico prescritto per le infezioni post parto e riposte nel comodino delle pazienti venivano vendute di contrabbando, rendendo impossibile portare a termine quelle banalissime terapie, imparando come la “clinica” da sola non basta mai, che si muore di povertà più di ogni altra cosa. Mamma, invece, ancora pensa sempre a quel numero, “1360”: era il numero di morti materne ogni 100 mila nati vivi quando eravamo lì, da non dormirci la notte, e alle giornate passate a cercare in ogni meandro dell’ospedale la cartella clinica della donna morta la notte prima, fatta sparire nel nulla».
«Non vedevo l’ora, appena arrivata qui in Sierra Leone, di tornare in ferie per raccontarti di tutto questo, dei colleghi, dei nuovi amici che sono soprattutto le mie colleghe, di quante donne forti ho incontrato, forse lontane parenti di quelle donne sarde di cui tu hai sempre orgogliosamente detto di far parte, che ogni giorno, con dolore, senza fili di sutura, anestetici, senza un ambiente accogliente e sterile intorno, spesso non rispettate e capite nella loro sofferenza, danno alla luce piccoli frutti di speranza e vita».
«Imparare e crescere insieme ai giovani medici della Sierra Leone o salvare una mamma incinta e il suo bambino da una complicanza drammatica può dare un grande senso al proprio lavoro. Ma quando non ci si riesce, per ritardato accesso o diagnostica insufficiente o altre carenze del sistema sanitario, la frustrazione e la sensazione di ingiustizia sembrano incolmabili».
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