«Prigionieri del fango, c’è bisogno di noi»

Alluvione in Emilia Due volontarie comasche sono state nei luoghi sommersi dall’acqua per prestare aiuto. Qui le foto

Ci sono verità banali che non scopriamo finché non le sperimentiamo in prima persona: il fango, ad esempio, pesa molto più della terra. Più di quanto possa immaginare chiunque non abbia mai provato a spalarne chili e chili per ripulire un giardino, una cantina, un garage pieno di libri. Fabiola Colombo e Giada Bernasconi lo hanno scoperto dopo essere partite dalla provincia di Como dirette in Emilia Romagna a tre settimane circa dall’alluvione.

Tra Faenza e Castel Bolognese

«Quando ho visto quello che era successo in Emilia - spiega Giada - ho deciso che volevo dare una mano. Così ho dato un’occhiata su Internet e ho scoperto che esisteva una piattaforma per i soccorsi volontari, “Volontari Sos”: in pratica tu ti segni nel Comune in cui vuoi prestare aiuto e la rete ti comunica a quale indirizzo recarti per la tua giornata di volontariato». Una giornata sola perché a Castel Bolognese e a Faenza ogni cosa è coperta di fango e quindi le due volontarie comasche hanno preferito partire molto presto la mattina e tornare molto tardi la sera, per non pesare ulteriormente sui residenti chiedendo un posto dove passare la notte. Residenti che lì, nei luoghi presi di mira dall’alluvione, hanno perso tutto. «Però ci avrebbero ospitati comunque a dormire - precisa Giada - sotto questo punto di vista mi ha stupito la loro gentilezza. In una situazione del genere io non so se sarei riuscita a essere così cortese».

Il primo giorno da volontaria, Giada lo ha passato a Castel Bolognese, nella casa di un signore di 70 anni che nel garage custodiva una preziosa collezione di libri. Pagine e pagine di storie che l’acqua ha fatto ammuffire, sbiadito, strappato, cancellato per sempre. «Lui ci diceva “Non fatemeli nemmeno vedere, buttate tutto e basta” e a noi si stringeva il cuore mentre ripulivamo il suo garage e spostavamo lungo la strada quei libri che aveva amato così tanto, insieme ai mobili e a tutto il resto che era andato perduto».

Storie d’acqua e di paura

Lungo le strade pile e pile di sacchi della pattumiera, scarti, oggetti rotti, momenti di vita sparsi in mezzo a quel fango che ha cristallizzato tutto in blocchi pesanti e sporchi di terra e acqua: marciapiedi, parcheggi e storie. È questa la cosa che ha colpito di più Fabiola, partita per Faenza una settimana dopo Giada: «Tutto quel fango era veramente lontano dal fiume. L’acqua in certi punti di Faenza, durante l’alluvione, ha raggiunto i due metri. Nella via dove ho prestato aiuto come volontaria alcune case non avevano più nulla: dai serramenti ai pavimenti».

Fabiola, accompagnata da Giovanni e da un’idropulitrice, ha percorso cortili e giardini per ore, prestando soccorso: «Li vedevamo proprio sconfortati, ci dicevano “lascia pure stare quel lato” o ancora “ormai non mi interessa più”». E poi ci sono i ricordi indelebili di quei momenti di terrore, mentre l’acqua travolgeva con correnti violente tutto quanto trovasse sulla propria strada. «Una famiglia - racconta Fabiola - ci ha detto di aver visto il fiume comparire fuori casa. Si sono rifugiati sul tetto e hanno aspettato che gli elicotteri li soccorressero, portandoli in salvo. Una signora mi ha detto che non dimenticherà mai il rombo provocato dall’acqua e da tutti quegli elisoccorsi nel cielo sopra Faenza». Ma insieme all’amarezza del passato, c’è anche la gratitudine per il presente e per le tante braccia che si sono messe a servizio di chi nell’acqua ha perso parti di sé, della propria storia. «Abbiamo portato pale, tira acqua e tantissime cose da donare a chi incontravamo - spiega Giada, che è partita con la sorella, la suocera, due amiche - e loro erano stupiti che fossimo partiti da Como per arrivare lì, per loro».

Gioco di squadra

Tra i volontari si fa squadra per le vie delle città emiliane, a volte non c’è nemmeno tempo di scambiarsi i nomi, perché il fango va zappato via da ogni angolo e la fatica supera la voglia di chiacchierare. Ma ci si sorride e intanto dalla strada arrivano gentili signore emiliane che tendono albicocche e acqua fresca ai volontari, mentre sotto un tendone si cucinano primi piatti per ristorare i corpi stanchi e i cuori affranti. «Ho visto tanta rabbia, ma soprattutto frustrazione sui volti dei residenti - ricorda Giada - entrambe le volte che sono stata in Emilia. Un signore mi ha fermata, voleva che vedessi coi miei occhi casa sua e poi mi ha guardata e mi ha detto “A dicembre saremo ancora qui”».

La rabbia è tanta che l’esperienza di volontariato non può non avere un impatto forte, tanto fisico quanto emotivo. Ma gomito a gomito con gli alluvionati, si prova a non pensare a quanto resta da fare, concentrandosi invece su quei pochi centimetri quadrati ripuliti. Che poi diventano metri e metri quadrati di spazio riconquistato, di possibilità future.

«Tornare a prestare aiuto come volontarie? Sarebbe sicuramente pesantissimo ma...da soli non so come potrebbero fare».

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