Suicidi in carcere, una strage di Stato

Giustizia Sono già 56 i detenuti che si sono tolti la vita nel 2024. Ora in città qualcuno prova a riaccendere la luce

Sotto il provocatorio titolo della locandina, “Quarantasei (in meno)”, spiccava un numero aggiunto con il pennarello: “+7”. Quarantasei era il numero di suicidi negli istituti penitenziari dall’inizio dell’anno. Ma dal momento in cui è stata mandata in stampa fino al giorno dell’evento (poco più di una settimana), altre sette persone si sono tolte la vita in carcere. Così, è stato necessario aggiornare il numero a mano. E oggi i 54 del 9 luglio, giorno della maratona oratoria di fronte al Tribunale di Como, sono diventati 56.

Ci hanno provato avvocati, educatori, magistrati, volontari, giornalisti, rappresentanti di associazioni (tra cui Como senza frontiere, Nessuno tocchi Caino e il Centro di servizio per il volontariato), ad accendere una luce su una tragedia che trascorre nella totale indifferenza. Hanno riportato testimonianze di persone che in carcere soffrono e non trovano voce. Il titolo provocatorio scelto per la tappa comasca di un’iniziativa itinerante organizzata dalle Camere penali d’Italia, “Quarantasei (in meno)” divenuti dieci di più, l’ha spiegata bene nel suo intervento l’avvocata Sabrina De Caria, organizzatrice della maratona insieme a Edoardo Pacia, presidente delle Camere penali di Como e Lecco. Si riferisce a quel cinico commento, vox populi, che si sente alla notizia dell’ennesimo suicidio: «Pazienza, un peso in meno, un costo in meno, un delinquente in meno».

Tra i “delinquenti” che tentano di togliersi la vita dietro le sbarre ci sono anche minorenni. Ragazzi che, come ha raccontato Martina Balossi, educatrice del Comasco, volontaria al Beccaria con l’associazione Bir, «decidono che preferiscono spegnersi, fermarsi, annullarsi. Prendono gli psicofarmaci come io mangiavo le caramelle zigulì. Si tagliano, tagli profondi e grossi che vogliono solo cercare quell’attenzione che nessuno gli ha mai dato, quell’affetto che non hanno mai sperimentato. Nella speranza che prima o poi qualcuno creda in loro, prendono ciò che hanno e si lasciano segni grandi e tanto in rilievo che non andranno mai via, in ricordo di questa bella vacanza, come dicono in tanti».

È vero, in carcere ci sono anche persone pericolose che devono essere custodite perché non facciano più del male. Ma sono una percentuale piccolissima rispetto alla maggioranza della popolazione penitenziaria, per lo più in carcere per reati minori, per lo più senza mezzi, per lo più straniera.

Cosa sta accadendo? Quali sono le ragioni del sovraffollamento, del progressivo degrado delle condizioni carcerarie? Dove sta andando il diritto penale? – sono le domande che interpellano la società civile e che l’ex magistrata Maria Luisa Lo Gatto ha lanciato nel suo intervento: «L’attuale inaccettabile condizione carceraria non è il frutto di congiunture astrali ma l’esito di processi che negli ultimi anni hanno subito una forte accelerazione: la politica proibizionista sulla droga con l’ampio ricorso al penale, l’assenza di politiche di inclusione per gli immigrati, l’affermazione di una politica di tutela della sicurezza che individua nelle forme di microcriminalità urbana il fattore di maggiore pericolo e contribuisce a spostare su di esse, quasi solo su di esse, le richieste di penalità. Tutto questo di pari passo con una drastica riduzione di forme di tutela delle fasce deboli, criminalizzate e punite spesso con la segregazione nelle carceri. Oggi la pena, e soprattutto quella carceraria, non assolve alla sua funzione rieducativa e non assolve quasi mai a quella preventiva». Esteranna Francescato, a nome della rete di Como senza frontiere, ha sollevato un velo su un’altra dolorosa condizione quella dei migranti rinchiusi nei Cpr: «Si afferma senza mezzi termini che “Non si può e non si deve morire di carcere”. È seguendo questa stessa logica che oggi sono qui per dire: non si può e non si deve morire di detenzione amministrativa!».

Di fronte al Tribunale di Como c’era un gran via vai di gente, giorno di mercato, qualcuno orecchiava le parole di allarme, pochi si fermavano ad ascoltare fino alla fine. Quei pochi che sono rimasti hanno trattenuto il fiato alla lettura, uno per uno, dei nomi di chi si è tolto la vita, un elenco scandito dalla giurista Alessandra Gaetani, garante dei diritti dei detenuti per il carcere di Como. A ciascuno di quei nomi corrispondeva una vita difficile, un paese lontano, i propri cari distanti o assenti, una tossicodipendenza, una patologia psichiatrica… Tutte accomunate dalla disperazione e dalla perdita di speranza.

Luigino Nessi, storico volontario del Bassone, ha ricordato che sono 400 le persone rinchiuse lì, una quarantina di donne e una decina di transessuali. Ha lanciato un appello perché del Bassone si interessi tutta la città: «Gli agenti subiscono aggressioni da persone esasperate, mancano educatori, figure sociali di ascolto, equipe mediche». E il solo spirito caritatevole non può essere la soluzione, come ha rimarcato Martino Villani direttore di Csv Insubria: «Il volontariato in carcere non si può fare con il buon cuore, è un volontariato complesso che richiede collaborazione tra chi si occupa di sicurezza e chi di gestione».

«Dobbiamo partire da noi – sono le definitive parole di Sabrina De Caria – perché finché continueremo a pensare che una vita presa in custodia dallo Stato è un peso in meno non cambierà nulla. La punizione senza recupero non aiuterà a risolvere il problema del sovraffollamento, e al detenuto che manca una prospettiva futura, l’unica alternativa che rimane è il suicidio».

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