Tapha: «Como Non è razzista. Accolto qui, ora tocca a me»

La storia Operatore di Porta Aperta-Caritas, è anche custode al dormitorio. «Bernasconi come un padre, mi manca tanto»

«Ciao zio». Tapha ti accoglie sempre così, con un sorriso e gli occhi che brillano. Sia che tu lo incontri in centro città, a Porta Aperta oppure al dormitorio.

Da dieci anni lavora per la Caritas, di mattina allo sportello d’accoglienza in viale Varese e alla sera al dormitorio di via Borgovico (d’inverno) o all’ex Ozanam in Napoleona (in estate). A Como lo conoscono tutti. Nel mondo del terzo settore, certo, ma non solo. Basta fare una passeggiata in centro con lui per rendersene conto: ogni due passi qualcuno lo ferma, lo saluta, gli chiede qualcosa.

Tapha Njie ha 39 anni ed è originario di Banjul, la capitale del Gambia.

«Lì non c’è il lago come qui - racconta - ma il mare. Sono nato nel 1985, ho studiato in una scuola professionale e mi sono diplomato meccanico ed elettrotecnico. Nel 2011 ho cercato fortuna in Senegal e due anni dopo mi sono deciso a partire per l’Europa».

Cinque giorni in mare

Ha avuto inizio così un’odissea durata un anno: prima ha raggiunto la Libia, poi cinque giorni di traversata del Mediterraneo e lo sbarco a Lampedusa. Come da copione, sulla tratta degli scafisti. Ma gli è andata bene, anche se non subito. Smistato al centro di identificazione e di prima accoglienza di Caltanissetta, è stato poi dirottato come richiedente asilo a Siculiana (chi ha visto quel Cpa cerca di evitarlo, anche se è a un quarto d’ora dalla splendida spiaggia della Scala dei Turchi).

«Dopo tre mesi - dice - un altro trasferimento, a Napoli. Lì ho imparato l’italiano, zio. Insomma, giusto per farmi capire. Quindi nell’agosto 2014 sono arrivato a Como, dove ho bussato al centro d’accoglienza della Caritas, allora al Cardinal Ferrari. Lì ho trovato Roberto Bernasconi, il direttore. È partito tutto da quell’incontro: ho cominciato ad aiutarlo nella gestione della prima accoglienza, come volontario, e nei lavoretti manuali sulle strutture. Dopo sei mesi mi sono trasferito alla casa delle suore di Lora, sempre con la Caritas, e a inizio 2015 mi hanno proposto il primo tirocinio di un anno, facendo le accoglienze. Poi, grazie al collega Samuele Brambilla, è arrivata l’assunzione di un anno a tempo determinato, quindi il rinnovo per un altro anno. Tanti che ancora vengono al dormitorio li ho incontrati alla prima accoglienza. È da lì che parte la conoscenza con molti ospiti».

In effetti basta vederlo “in azione” al dormitorio per capire che Tapha è visto dagli ospiti come uno di loro. Lui ricambia sempre con bella maniera, con un sorriso e una pacca sulle spalle, ma sa farsi rispettare. E sa chiudere la porta o dire cose spiacevoli, quando è necessario.

Casta Diva o Caritas

Nel 2017 il classico momento da “sliding doors”, come nel film con Gwyneth Paltrow. E questa bella storia di integrazione avrebbe potuto finire su altri binari.

«Alla scadenza del secondo contratto a tempo determinato alla Caritas - ricorda - ho trovato posto per la stagione estiva in un bellissimo albergo, il Casta Diva di Blevio. Alla fine mi hanno offerto un contratto a tempo indeterminato, ma Roberto Bernasconi mi ha chiesto di tornare, di fidarmi di lui, che avrebbe fatto il possibile per farmi avere un contratto stabile anche in Caritas. E così è stato. Nel frattempo mi è stato riconosciuto il permesso di soggiorno definitivo. Ed eccomi ancora qui, a dieci anni di distanza. Dopo aver superato anche momenti di grande difficoltà come l’emergenza profughi dell’estate 2018 - con la stazione trasformata in tendopoli - e gli anni del Covid».

Tapha lavora sempre nell’accoglienza ed è quello che più gli piace, senza rimpianti. A parte un paio, entrambi con un nome e un cognome. Il primo è Roberto Bernasconi, scomparso nel marzo 2022: «Per me era come un padre e mi manca tanto. Mi ha aiutato nel momento più difficile e non lo dimenticherò mai. Poi mi ha insegnato cos’è l’accoglienza. Era di poche parole, ma nelle emergenze sapeva sempre cosa fare, anche in piena notte. Se sono ancora qui lo devo a lui. Faccio un lavoro che mi piace e che dà un senso alla mia vita. Io sono stato accolto e ora tocca a me aiutare gli altri nell’integrazione, tocca a me spiegare quanto è importante sapere l’italiano, studiare, imparare un lavoro. Io ci sono passato e ora provo ad aiutare gli altri. Perché l’unica strada è questa».

L’altra persona che non dimentica è don Roberto Malgesini, ucciso da un migrante nel settembre del 2020.

«Un grande uomo - ricorda - e un amico. Con lui ho condiviso tanti momenti in Caritas e al dormitorio. Arrivava a qualunque ora se c’era bisogno, anche alle due di notte, sempre con la sua bici. Se un ospite aveva bisogno di un farmaco lui sapeva sempre chi era e qual era il suo letto. Fatico ancora a credere che sia morto».

«Il futuro? Qui, con le mie bimbe»

Tapha vede il suo futuro a Como. Ma non da solo. «Mi piacerebbe tanto - dice - riuscire a portare qui le mie figlie Saffie e Mam Sai, di 14 e 10 anni, che vivono in Gambia con la nonna Salimata. Credo che se potessero crescere e studiare qui avrebbero molte più opportunità rispetto all’Africa e poi adesso riesco a vederle solo una volta all’anno, non è lo stesso».

Lui si trova bene in città, ha trovato stabilità e fa quel che gli piace di più. «Al dormitorio - ricorda - ho incontrato tanta gente, alcuni che hanno alle spalle storie simili alla mia e altri “bruciati”. Io cerco di aiutare entrambi, anche i casi disperati, che hanno storie pesanti di dipendenze o di emarginazione. Provo a fargli capire che hanno sbagliato strada , ma di essere forti e di provarci ancora, che cambiare il proprio destino è possibile. Spesso non serve, ma io ci provo sempre».

Tapha, anche se ultimamente gira con un berrettino griffato “Juventus”, ha Como nel cuore: «È vero. C’è una cosa: i comaschi con me sono sempre stati gentili. A partire dai volontari che incontro ogni giorno, bravissimi e che rendono possibile l’impossibile».

Ma anche in generale: «Non ho mai avuto esperienze negative né vissuto episodi di discriminazione o razzismo. Non mi ritrovo nei luoghi comuni sui comaschi razzisti e provinciali. Ho sempre trovato brave persone». Anche perché Tapha ha un sorriso che illumina davvero il mondo.

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