«Il mondo dell’agricoltura ha bisogno di forze nuove»

L’analisi È l’auspicio di Alice Croce, presidente della società che distribuisce la produzione orticola in Ticino. «La sfida sarà quella di attirare ragazzi lontani dal nostro mondo, che ci vedano come sbocco occupazionale»

Un 2022 positivo per l’agricoltura ticinese, anche il settore dell’orticoltura vede buoni riscontri dal mercato e guarda avanti. Ne parliamo con Alice Croce, presidente di TIOR SA, la società commerciale che distribuisce la produzione orticola dei soci della Federazione Ortofrutticola Ticinese.

Com’è stato, dal vostro punto di vista il 2022?

Io parlo chiaramente per quello che riguarda il settore orticolo: la richiesta della nostra produzione è in costante crescita, e questo è positivo. Se consideriamo l’esistenza delle aziende, questo è per noi un tema molto sensibile perché ci sono diversi produttori che si stanno avvicinando alla pensione o sono anagraficamente in età pensionabile e vorrebbero cedere la loro attività ad altri produttori. Il settore è molto legato alle famiglie e non sempre c’è un ricambio generazionale al loro interno.

Quali ragioni ci sono dietro questo problema?

Da una parte c’è la difficoltà ad avere il ricambio generazionale, dall’altra le aziende non sono così appetibili. È vero che i territori agricoli sono molto ambiti viste le limitazioni del Ticino per motivi di morfologia, ma dal punto di vista commerciale le aziende non sono sempre interessanti. Oggi per produrre secondo i canoni che richiede il mercato – in particolare noi guardiamo all’industria e alla grande distribuzione – e avere la marginalità necessaria per stare a galla, è indispensabile fare investimenti anche infrastrutturali di una certa importanza che non sono sempre possibili: richiedono fondi che talvolta le aziende non hanno e ci sono poi i limiti pianificatori. Una serra, non è possibile realizzarla ovunque, ci sono terreni agricoli previsti per edificazioni di questo tipo e sono molto limitati. Un’azienda “vecchia” richiede investimenti che i proprietari attuali non riescono a fare e per questo chi la vuole acquisire la ritiene meno interessante. Se guardo alla storia della nostra cooperativa, poi, il numero dei produttori è sempre in diminuzione. Come un po’ in tutti i settori c’è un raggruppamento delle aziende che diventano sempre più grandi. È un trend naturale, non lo vediamo per forza negativamente. Mentre quello che piacerebbe avvenisse di più, è che i giovani s’interessino al settore come sbocco professionale.

Ma la riscoperta della natura e anche dell’agricoltura da parte dei giovani è dunque più una leggenda, per così dire?

Se guardo alle nostre aziende, ci sono figli che decidono di seguire le orme del padre. Qualche passaggio ben riuscito oppure in corso d’opera esiste e per noi questo è positivo. Più difficile è attirare giovani lontani dal nostro mondo, che non abbiano cioè già una tradizione alle spalle. Anche con l’Unione Contadini Ticinesi, che segue tutto il settore agricolo del Cantone, parliamo di questo tema perché c’è l’interesse di attirare i giovani a specializzarsi in ambiti peraltro molto interessanti. Fare l’agricoltore oggi è molto diverso rispetto a venti, trent’anni fa. Anche a livello di specializzazione di studi può essere molto interessante.

Ci sono attività agricole che lavorano anche con l’aiuto del digitale, ad esempio, ormai.

Oggi se si entra in una serra di ultima generazione si trova molta elettronica, tante apparecchiature che monitorano ogni singolo aspetto sia dell’ambiente sia delle piante, che misurano lo sviluppo, la maturazione del prodotto, l’irrigazione, ecc. Sicuramente l’ingegnere agronomo oggi è una figura che ha delle competenze anche tecnologiche importanti. C’è tuttavia l’aspetto non secondario che questo mestiere richiede tanto tempo e tanta energia: perché stia in piedi un’azienda agricola, bisogna investire tanto. Non è il lavoro comodo. Qui forse c’è un problema di mentalità: oggi c’è anche questa sfida. Per quanto poi ci possa essere la tecnologia, esiste un legame con la natura e i fenomeni meteorologici che non posso mai controllare fino in fondo. Anche questa è una predisposizione che una persona deve avere. Io potrei seminare un campo o far partire una coltivazione in serra e poi il mio raccolto sarà molto diverso da quello che avevo preventivato. Come è successo lo scorso anno, una grandinata non attesa distrugge il campo di zucchine o una malattia può attaccare le mie piantine in serra e compromettere la produzione. Sono elementi che rendono questo mestiere particolare.

Parliamo delle donne: cresce il loro apporto nelle aziende del settore?

Come dicevo prima, si tratta prevalentemente di un’attività familiare. Quindi da sempre le donne sono attive. Tra l’altro la legge agricola ticinese prevede misure ad hoc per le donne attive nelle imprese agricole di famiglia. Magari coinvolte con ruoli diversi, ad esempio nella vendita diretta, ma storicamente è sempre avvenuto. Poi gli uomini titolari sono ancora in netta maggioranza. Ma ciò non significa che non sia un settore aperto alle donne. Io sono la prima presidente della nostra cooperativa non produttrice e la prima donna. È sempre stata una ricchezza, non un problema, e tanto meno un’esigenza di quote.

Dal report federale emerge la crescita invece delle aziende con marchio biologico. Succede anche da voi? E comunque la sostenibilità è, per così dire, al centro dell’azione?

Io dico sempre che un produttore agricolo che vive della natura non interessato alla salvaguardia del territorio sarebbe un controsenso. Certamente la questione sostenibilità è intrinseca al nostro settore, non è una novità. Se invece parliamo di misure intraprese in questi anni per rendere la produzione più sostenibile, questo è avvenuto a 360 gradi, non solo per chi fa biologico. Biologico non è per tutti. Un credo, una modalità di produzione completamente diversa: non ci sarà lo spostamento in toto dalla produzione convenzionale a quella biologica, ma a mio modo di vedere non è necessario. Perché quella convenzionale è sempre più sostenibile.

Facciamo un esempio.

Non c’è una produzione più sostenibile di quella in una serra, anche se non può essere bio: consumo di terreno molto inferiore, con maggiore resa, le serre di ultima generazione sono collegate a un sistema di approvvigionamento CO2 esente. Ho un minor consumo di acqua: quella che la pianta non consuma, viene recuperata e rimessa in circolo. C’è attenzione a un impatto sempre inferiore e noi come cooperativa siamo molto attenti in tutta la filiera. Energia, motori frigo utilizzati, imballaggi scelti: c’è un’attenzione a 360 gradi. Perché tutto ciò è caro a una categoria di persone che ha a che fare quotidianamente con la natura, perché ci crediamo e ci allineiamo alle richieste di mercato e grande distribuzione. In questo contesto rientra il discorso della filiera corta e della produzione a km zero: su questo secondo me c’è ancora molto da lavorare.

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