Non chiamateli migranti, sono “pendolari di breve raggio”

La storia Il fenomeno del frontalierato comincia nel decennio 1950-1960. Ma senza le questioni di integrazione che riempiono i dibattiti di oggi

Il decennio a cavallo tra il 1950 e il 1960 segnò il momento in cui, il grande bisogno di manodopera in Svizzera richiamò moltissimi italiani nella Confederazione e fece nascere il termine “frontaliere” prima di allora sconosciuto, benché il fenomeno fosse in atto dalla fine dell’Ottocento, ma senza alcun controllo alle frontiere.

I dati che si trovano nel Dizionario storico della Svizzera, a firma di Georg Kreis, raccontano di come, per l’assenza di controlli al confine, prima del 1914 non sia possibile dare consistenza statistica al frontalierato.

Dando voce ai numeri del Dizionario si può però misurare il fenomeno in anni più recenti. Nel 1971 i frontalieri in Svizzera erano 86.000, nel 1978 (dopo il crollo del 1974) circa 84.000, nel 1985 circa 109.000, nel 1990 e nel 1991 circa 180.000 (quando si raggiunse massimo storico), nel 1995 circa 152’000 e nel 2001 168.000, di cui circa 32.700 nel Ticino: 48.900 nella regione di Basilea, 32.500 nel cantone di Ginevra, 11.500 nel Vaud e 7.200 nel cantone San Gallo. Numeri sicuramente meno imponenti di quelli di oggi, ma che già testimoniavano il trend dei lavoratori richiamati dalla Confederazione.

Nel Ticino il periodo 1955-74 ha visto un aumento da 7.000 a 32.000 frontalieri, saliti poi a 40.700 nel 1990.

Gli esperti

Detto ciò, per capire meglio chi sia stato nella storia il frontaliere, si può fare appello alla definizione dello storico Paolo Barcella dell’università di Bergamo: «Il lavoro frontaliero europeo novecentesco rappresenta una forma del pendolarismo internazionale di breve raggio».

I frontalieri non sono migranti, ma vivono alcune esperienze caratteristiche della migrazione

Barcella è autore del libro “I frontalieri in Europa. Un quadro storico” edito da Biblion e specifica che i frontalieri «vivono alcune delle esperienze caratteristiche dei migranti, pur non essendo migranti in senso stretto. Per i frontalieri non si pongono questioni di integrazione». Barcella ricorda anche come si dovette aspettare il 1931 perché la Confederazione Elvetica adottasse la “Legge federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri”, con la quale si definivano gli statuti delle varie tipologie di forza lavoro migrante con l’obbligo di tornare nel Paese d’origine finito il lavoro.

Si deve arrivare invece al 1999 per avere la figura del lavoratore “notificato”, introdotta con gli accordi per la libera circolazione delle persone tra Unione Europea e Confederazione Elvetica. Il “notificato” lavora in Svizzera senza permesso di soggiorno per un massimo di 90 giorni non consecutivi dopo aver chiesto una notifica di presenza agli uffici competenti.

Il fenomeno del frontalierato è molto complesso, ha subito molte modifiche nel corso degli anni ed è legato nella storia anche alla nascita del sindacato che ne tutela anche oggi i diritti. L’Archivio Storico dell’Emigrazione Italiana dà infatti notizia di come «negli anni Cinquanta dell’Ottocento, in ritardo rispetto a quanto accadde nei cantoni che conobbero uno sviluppo industriale più precoce, sorsero le prime organizzazioni operaie del Canton Ticino. Il 18 luglio 1851 si costituì il Circolo degli Operai di Bellinzona. La classe operaia ticinese sviluppò le sue organizzazioni proprio grazie all’apporto di lavoratori provenienti dall’esterno del Canton Ticino (e per la stragrande maggioranza dall’Italia): se nel 1870 il numero complessivo di stranieri e confederati era prossimo alle 10.000 unità, nel 1910 quel numero si era quintuplicato.

Negli stessi anni nacque il Partito Socialista Svizzero, crebbe l’Unione Sindacale Svizzera e si diffusero le Camere del Lavoro in Italia».

La storia ha sempre messo alla prova i frontalieri che, per esempio, ebbero vita dura durante il fascismo in Italia, con la minaccia di ritiro del passaporto a chi militasse in organizzazioni antifasciste svizzere.

L’accettazione

Un’altra difficoltà che ha radici negli anni Sessanta, ma continua ad esistere anche oggi è quella dell’accettazione del frontaliere da parte del cittadino svizzero e ticinese. Se infatti il boom di frontalieri si registra negli anni Cinquanta, nei Sessanta, quando la diffusione delle auto private permise un migliore spostamento quotidiano dall’Italia al Ticino, molti emigrarono nel Comasco anche dalle zone povere del Veneto e dell’Emilia Romagna per diventare frontalieri e allora nacquero anche i sentimenti xenofobi verso i frontalieri e l’Azione Nazionale contro l’Inforestieramento. Un rapporto, frontaliere-svizzero, che resta ancora delicato.

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